di Massimo Selis
Nel paese a valle gli inverni erano lunghi e la primavera si affacciava stancamente. Le mattine, l’umidità delle montagne condensava in una nebbia soffice e compatta che si prolungava per molte miglia, e molte ore. Non si riusciva a vedere a distanza di pochi passi. Se camminare per le strade del paese era ancora possibile, seppur rischioso, impossibile era invece avventurarsi per i sentieri della campagna. Si finiva così, il più delle volte, per rintanarsi in casa davanti al fuoco. L’imbrunire giungeva presto, appena il sole scavallava le alte cime. Pochissime le ore di luce e di tepore. E così, alcuni uomini, non temendo la fatica e i rischi, si inerpicavano sui fianchi delle montagne per stazionare su più alti suoli. In cerca di luce e di aria più pura. Nell’ascesa, loro sostentamento erano alcune bacche, erbe selvatiche e la selvaggina che abbondava in quelle zone. Giunti a metà della salita il tappeto bianco che tutte le mattine nascondeva il villaggio appariva già distante e piccolo. E si poteva ammirare l’intera valle. Ma i più temerari proseguivano fin quasi alle coste di roccia che facevano da cappello alle alte montagne. Alcuni non facevano più ritorno e di loro non si seppe più nulla. Forse erano andati a dimorare in altre vallate, o forse erano morti. Tutti gli altri, a primavera avanzata, discendevano al paese. Ma riabituarsi era per alcuni assai difficile. Forse per quello che avevano veduto da lassù, forse per l’aria pura che aveva disintossicato i loro polmoni e dilatato i loro pensieri, forse per la solitudine che li aveva resi più taciturni e talvolta respingenti. Insomma, il viaggio li aveva cambiati, ma forse erano cambiati anche tutti quelli che erano rimasti a valle, rintanati fra le mura di casa per un intero inverno. E così, l’armonia del paese andava incrinandosi anno dopo anno, nebbia dopo nebbia.
Qui, però, il nostro racconto si ferma. Lasciamo ai benevoli e creativi lettori l’uso di immaginazione per decidere se e come la vita nel villaggio sia tornata in equilibrio, di certo un nuovo equilibrio.
Lasciare la valle per ascendere lungo i fianchi della montagna vuole essere allegoria dell’ascendere verso la comprensione più “alta” della Vita e dei Misteri. La via della Sapienza, della luce intellettuale. Il nostro mondo oggi appare come quel villaggio, accecato da una nebbia che intimidisce i movimenti, gli incontri, confonde le direzioni, toglie fiato ai pensieri. Un mondo che si contenta di restare al sicuro fra le mura conosciute; che al massimo muove pochi passi incerti in mezzo ad una coltre opaca che raffredda ogni slancio e impedisce persino di immaginare lontano.
Alcuni però tentano la difficile scalata in cerca di idee che dilatino gli orizzonti, scaldino i cuori e rinvigoriscano le membra impigrite. Lo studio e l’approfondimento della Tradizione, la meditazione, la capacità di essere veramente presenti a se stessi, di saper intuire e cogliere i Segni inviati dal cielo sono un bagaglio che non appesantisce il viaggio, ma anzi dona levità. Perché ascendere è sempre uno spogliarsi. È togliersi le vesti carnali per rivestirsi di quelle, leggerissime, dello spirito. È visione, laddove, nella valle, tutto resta confuso.
Eppure non basta affatto salire per acquisire la vera sapienza. Molti infatti, illudendosi che il cammino sia di sola andata, rimangono confinati nelle loro gloriose altezze. Sono tutti quei presunti uomini di intelletto che non sono capaci di incarnare le conoscenze che dicono di aver raggiunto. Che si adoperano in un presunto lavoro interiore che però non riesce a mostrare i suoi frutti nella società civile, negli altri. Che credono che da lassù potranno osservare la catastrofe di “questo mondo” senza venirne intaccati. Che hanno compiuto il viaggio non per vera vocazione, ma per appagare un bisogno, per un amore che si ripiega più verso se stessi anziché irraggiarsi sugli altri. Forse oggi, di questi “viaggiatori a metà” ve ne sono troppi. Le loro parole possono anche ad alcuni sembrare suadenti, ispirate, ma se ascoltassimo con maggiore attenzione ci accorgeremmo che manca l’elemento essenziale: la Vita.
Vi sono invece gli altri, pochissimi, che seppur estasiati da ciò che hanno udito, visto e sperimentato lassù, decidono di tornare fra le strade, le case del villaggio, di sfidare la compatta nebbia. Ciò che ha spinto i loro piedi lungo la via del ritorno è una voce, una chiamata. La ricchezza che si acquisisce lassù ha valore solamente se viene condivisa. Se le parole e le immagini di verità assimilate vengono spezzettate per renderle masticabili dagli altri. Sono questi i maestri.
Ma c’è ancora di più. Quando usiamo l’espressione “dare la vita”, la nostra mente corre subito ad immagini cruente, di sangue, di morte. E l’immagine per eccellenza è quella di Gesù in croce. Ma proprio così noi perdiamo di vista il senso più profondo e spirituale. Nella Bibbia il sangue simboleggia l’anima. Quando Caino uccide Abele, Dio dice: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4, 10). E così la terra ritrova la sua vita, dialogando col cielo. E Nostro Signore, versando il suo sangue non solo riconcilia Eletti e Gentili, facendo «dei due un popolo solo» (Ef 2, 14), ma restaura l’intera Creazione. Il sangue è quindi elemento di Vita, di unità.
Allora si comprende che “dare la vita” va inteso nel significato di trasferire Vita agli altri perché essi divengano così dei Viventi, capaci a loro volta di donare vita e di sperimentare la Comunione delle anime. Ma appunto per questo, dalle vette che accarezzano il cielo, bisogna ritornare alla terra. Occorre chinarsi sugli uomini che vagano avvolti dalla nebbia o peggio ancora si sono chiusi nelle loro sicure stanze. Occorre stare con loro, respirare con loro, camminare con loro. Occorre usare le “parole che svezzano” – ricordiamo che Fatima in arabo significa “Colei che svezza” – senza affrettare i tempi e i cammini. Perché le parole sono parole di Vita solamente se danno la forza e l’intelligenza di camminare con le proprie gambe.
La luce intellettuale è chiamata per alcuni spiriti o è per tutti? – si domanderà. Se certamente ogni uomo ha una conformazione spirituale unica, un carattere, un temperamento, dobbiamo altresì precisare che la battaglia finale, ovvero quella che si sta già combattendo, è una battaglia delle idee e che anche un Soloviev ricordava che nei Tempi Ultimi tutti i cristiani sarebbero stati pensatori. Non basta dunque solo l’umile e amorevole sforzo di chi per primo si è avventurato sulle montagne per attingere ai tesori di Sapienza e che poi è ridisceso per condividerli con gli altri uomini, come si spezza il pane per un pasto fra amici. Occorre anche la piena disponibilità di coloro che vagano nella nebbia delle certezze da poco, della psicologia dell’ordinario, del sentimentalismo che si crede spirituale, del buon senso che non domanda altro da sé.
Alcuni forse, a loro volta, sentiranno una spinta a lasciare le mura di casa per inerpicarsi su per il fianco della montagna, altri invece attenderanno ai loro impegni restando in paese, così che si componga una perfetta armonia fra strumenti diversi. Una nuova armonia.
Chi scrive ha avuto l’immenso dono di incontrare dei sapienti che avevano raggiunto quelle vette, le cui parole, sebbene rimandassero a Verità quasi impronunciabili, apparivano alle orecchie, comprensibili e lievi. Parole che l’anima in segreto da sempre, attendeva.
I tempi che stiamo vivendo sono davvero i più bui della Storia – sciagurati coloro che non se ne avvedono! – ma anche i più sovrabbondanti di Grazia. Vi è urgentissimo bisogno di tagliare questa coltre di nebbia che ci offusca la vista, così come è necessario abbandonare ogni presunzione intellettuale che non è portatrice e generatrice di vita. Resta forse un ultimo quesito a cui vi invitiamo a rispondere: se è più arduo “farsi eucaristia vivente” donando la vita agli altri, o lasciarsi donare la vita accettando di venire letteralmente ricreati.
Foto Idee&Azione
13 marzo 2023