Idee&Azione

Gaudenti nella fissità

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di Massimo Selis

La primavera raggiunge la pienezza: nei suoi colori tutto comunica vita, gioia, cambiamento. Anche la Storia, pur con le sue nubi che si muovono veloci, ci parla di un passaggio. Certo oggi ne possiamo solo intuire la prefigurazione nell’inizio dell’agonia di “questo mondo”. Ci separano dalla cosmica soglia ancora anni – non mesi – ma attraversando le violente scosse che non risparmieranno dolore, dobbiamo farci pronti; coniugando l’esercizio interiore alla generosa operosità all’esterno. Eppure anche coloro che paiono vedere i segni di questa fine e del nuovo inizio attendono un cambiamento di sola superficie. Come una nuova verniciatura su di un legno vecchio. Accettano forse il cambiamento, ma non la trasformazione.

Liturgicamente, e non è un caso, stiamo vivendo il tempo di Pasqua che ci accompagnerà ancora per alcune settimane. Tempo di trasformazione per eccellenza, eppure una impigrita religiosità ha vincolato la Resurrezione ad un significato che asciuga la vera dynamis che la anima dal di dentro. Se al contrario ci lasciassimo condurre più in profondità nel suo mistero, supereremmo le nostre resistenze e comprenderemmo i segni che la Storia non lesina di inviarci, immettendoci così nella corrente trasformante della Vita.

Il Mistero Pasquale, per come è abitualmente presentato, si costruisce sul verbo Risorgere che però – non tremate! – non è presente nella Scrittura. Un verbo che è entrato nel lessico della tradizione cristiana, ma che è perlomeno improprio, in quanto come iterativo di sorgere starebbe ad indicare un tornare alla posizione precedente dopo essere “caduti in basso”. Linguisticamente esprime dunque un percorso che compiendo un rigiro “torna all’inizio”, ma la stessa tradizione ci parla di un Gesù che dopo la resurrezione assume una dimensione esistenziale differente da quella di prima.

La Pasqua consta in verità di più momenti che segnano la traiettoria del Cristo. Gli evangelisti adombrano tale traiettoria nell’utilizzo di alcuni simboli e sotto il significato dei verbi che noi banalmente traduciamo con Risorgere. Il Libro Divino usa due verbi distinti: egheiro (svegliarsi) e anistemi (sollevarsi) per enucleare il duplice mistero di Redenzione e Salvezza.

Egheiro indica il passaggio da una dimensione ontica ad un’altra, dal materiale all’immateriale, ma sempre all’interno dell’eone creaturale. Scomposto in e g’ eiro, per Vincenzo Romano, parla della riunificazione del sé, quindi dell’anima.

Anistemi è invece il conquistare una condizione di superiorità, lo stare stabilmente in alto. Ancora Vincenzo Romano illumina maggiormente: «Compitando infatti “A. N. istemi” si intende: “Stare saldamente quale Principio e quale Spirito”. La lettera Alfa indica il Principio (io sono l’Alfa e l’Omega) e la lettera N intesa come numerale esprime quel 50 che è il numero dello Spirito (pentecoste)».

I vari momenti del racconto della Pasqua, possono allora essere così suddivisi, in un fluire dinamico di Vita:

Gesù, dall’alto della croce, non muore – come noi abitualmente intendiamo – ma transita dalla dimensione corporale alla sua piena dimensione animica;

Gesù si situa stabilmente come Re del Creato e attrae tutti a sé: «Oggi sarai con me nel Giardino (delle anime)»;

la sequenza della deposizione-vestizione-sepolcro racconta la nascita dell’Eucarestia, il cibo divinizzante del Cristo-Spirito;

le apparizioni gloriose del Cristo dopo la resurrezione sono il manifestarsi ultimo del Signore (Parusia) agli uomini, faccia a faccia.

I primi due momenti rappresentano il Cristo Redentore, Signore del Paradiso Terrestre, che redime l’intero creato e apre all’uomo la strada per la sua nascita animica. Gli ultimi due, invece, rappresentano il Cristo Salvatore che divinizzando l’uomo lo “salvano” dalla sua dimensione creaturale. Cristo è sia “stabilmente in alto” che qui in basso nella sua Perfezione Eucaristica. Cibandosi di tale celeste cibo, l’uomo può santificarsi, ed incontrare alla fine, senza mediazione alcuna, il Cristo divino.

Proprio queste “apparizioni” narrate alla fine dei Vangeli, che prefigurano i Tempi Ultimi, quelli della Parusia – perciò i nostri – sottolineano alcuni rischi in cui l’umanità può facilmente inciampare. Una costante di questi racconti è il fatto che i personaggi che incontrano il Cristo, all’inizio non lo riconoscono. Così è ad esempio per i due discepoli diretti ad Èmmaus, per Maria di Magdala fuori dal sepolcro, per i discepoli che pescano sul Lago di Tiberìade. I discepoli, come noi d’altronde, non avevano inteso l’aspetto dinamico del percorso di Gesù, il quale era venuto ad operare tanto la Redenzione che la Santificazione dell’intero Creato.

Oggi, alcuni “sanno” che Gesù è in mezzo a noi, ma non lo riconoscono. Pescano lungo tutta la notte, ma alla fine le reti restano vuote, perché quella “presenza” non è nulla più di un sentimento o di un costrutto mentale. Gesù, nell’episodio della donna adultera – brano che si meditava in Quaresima – si rivolge agli scribi e ai farisei dicendo: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Ribalta l’esterno (giudizio ipocrita) con l’interno. Perché è da lì che deve venire il vero giudizio; passando prima davanti al tribunale della propria anima.

Il mondo attuale è incendiato da conflitti, necessari da un lato alla purificazione finale, ma questo porta costantemente gli uomini a posizionarsi su opposti schieramenti ognuno dei quali ha le mani pronte per scagliare le pietre sull’avversario. Lo sguardo è rivolto solo all’esterno, perché nasce dalla fissità di chi si crede già giusto. Questo indica che non si è minimamente inteso il significato di trasformazione che la Pasqua ci viene a portare. E si è travisato del tutto il senso del Ritorno di Cristo (Parusia). Cristo opera e parla in ogni momento, anche questo, e parla ad ogni uomo perché si volga a Lui (Omèga) così che tutto il proprio passato e il passato dell’intera umanità venga illuminato da una nuova luce. Non vi è nessuno che non debba incamminarsi in questo sentiero di trasformazione, al di là delle singole ragioni che si possono pur avere su determinate questioni contingenti, e per chi continuerà ad opporre resistenza, il suo parlare ed il suo agire avrà «un sapore antidiluviano» per usare un’efficace espressione di Silvano Panunzio. Noi cerchiamo nemici – e quanto è facile trovarne oggigiorno, con tutti i dèmoni che si aggirano per la terra – ma così facendo non sentiamo il Cristo che ci parla, che parla a ciascuno di noi, non soltanto ai “cattivi”. Egli dimora nelle situazioni della vita che stiamo vivendo, ma non lo riconosciamo.

Da oltre due anni il pianeta è scosso da enormi tumulti. La cosiddetta “emergenza sanitaria” è servita per accelerare quella “società del controllo” che è uno degli obiettivi del potere. Così è la guerra, almeno dal lato della propaganda asfissiante. In entrambe le vicende i “buoni” – quella minoranza che non cede ai ricatti delle élite – tengono gli occhi ben puntati sui “cattivi” da combattere: o per riacquistare la vita che avevano prima, o per veicolare un cambiamento che però si situa sempre nel medesimo orizzonte esistenziale. Tutta scorza, senza nessuna profondità. Eppure, quanto sta accadendo è Segno di una chiamata universale, la chiamata finale per cui Dio vuole preparare i suoi. Non vi è valore, principio, Tradizione stessa che non debbano essere rinnovati nel fuoco del completamento di questo Ciclo umano-terrestre, in funzione del passaggio al successivo. Eppure stiamo tragicamente mancando l’appuntamento. Dio parla, ma a noi sembra sempre che stia parlando solo per gli altri: noi siamo quelli già buoni. Ci chiama a seguirlo per la finale trasformazione, ma il cambiamento noi lo consideriamo necessario solo per gli altri. E nel non riconoscerlo, nascosto nei momenti della Storia, dimostriamo così di non amarlo.

Dio però ci domanda se lo amiamo ma come Simon Pietro dopo la pesca sul Lago di Tiberìade, non rispondiamo veramente, perché abbiamo paura di impegnarci. Ci fa paura la santità, non vogliamo essere scocciati. Delle brave persone, sì, santi è troppo. Così noi lo inchiodiamo di nuovo alla croce, ma senza farlo più scendere. Ogni “no” a rinunciare ai nostri più grandi attaccamenti intellettuali è un chiodo che gli trafigge la carne e si impianta nel duro legno. Pieni di “giusti valori” siamo allora come i farisei più volte apostrofati dal Signore come ipocriti, ovvero come coloro che portano una maschera e fingono.

Con tutto il male che vi è nel mondo facciamo davvero fatica a credere che Dio stia chiedendo anche a noi, non semplicemente di cambiare, ma di lasciare ogni cosa e seguirlo, perché Egli vuole svelarci le meraviglie del Vangelo Eterno (Ap 14,6). Quello che è stato sinora è soltanto preparazione. Quello che sarà fra una manciata d’anni non è dato scriverlo, sarebbe invero presunzione, ma potremmo almeno immaginarlo, e così adoperarci, poiché anche il nostro contributo è richiesto affinché l’opera divina si realizzi. Invece preferiamo mantenere gli occhi puntati verso il passato, uno sguardo che ci lascia sicurezza. E come nell’apparizione sul Lago, la riva è vicina, il tempo è poco. Tutto in quel racconto infatti simboleggia la fine dei tempi. I discepoli sono sette come sono sette i giorni della Creazione. Allo stesso modo, anche il fatto che Gesù si presenta sulla riva e che i pesci vengono trascinati a riva ci comunica che siamo alla fine. La riva infatti segna la fine del mare (tempo). Lasciamoci allora attrarre dalla voce che chiama dalla terra asciutta. Rompiamo la fissità delle nostre convenzioni e diventiamo ardenti. Come il fuoco su cui cuoceva il pesce a riva simboleggia lo spirito, così la nostra vita va vissuta anch’essa nello Spirito. Esso chiama al quel dinamismo che troppo sovente cerchiamo di allontanare per non essere disturbati nelle nostre abitudini. Se resteremo ancora sordi, se non accetteremo che una salutare crisi ci faccia uomini nuovi, rischiamo di essere come i pesci che non vengono raccolti nelle larghe reti, ma restano nell’oscurità, in fondo al mare.

Foto: Apparizione del Risorto sul lago di Tiberìade, Affresco, sec. XI, Abbazia di Sant’Angelo in Formis, Capua (Caserta)

3 maggio 2022