Idee&Azione

Giovanni Greppi: la commozione religiosa di amor patrio

image_pdfimage_print

di Emanuele Casalena

Artigiano del ferro battuto, architetto, pittore, scenografo, incisore questo è stato Giovanni Greppi, a Milano il primo vagito, a Milano l’ultimo espiro, nato nell’Italia proletaria, papà Donato mamma Luisa Frizzi misero nove figli nel nido, lui la primizia, a seguire gli altri, vita tosta senza cicale, si lavora all’impresa paterna, la lavorazione del ferro battuto, al tempo c’aveva un buon mercato.

Gli studi eran per signori ma il picinin c’era portato, babbo scuoteva la testa, la madre carezzava la vocazione del figlio vincendo la battaglia dei libri. Giovannino però aiutava il babbo, studia e lavora, e lì tra crogiolo, incudine, martello, s’innamora della forma creata, a bottega vede lo scintillio dell’arte, è la sua strada, a percorrerla occorre competenza tecnica, studiare forte, smorzando le bubbole paterne, fino a iscriversi alla Scuola Superiore di Architettura dell’Accademia di Brera.

L’arte si trasmette dai maestri, tale fu per il Greppi, Camillo Boito, architetto teorico di uno “stile nazionale” post unitario, la madia era ricolma di memorie, gomitoli diversi per cucire un abito comune alla neo Patria, in una Nazione composita per storia, tradizioni, espressioni creative e Roma antica fu il filo bianco dell’imbastitura, il collante migliore, nascevano eclettismo e neoclassicismo dove è la destinazione a scegliersi il vestito da cerimonia.

Nel 1907 Giovanni è docente di Disegno architettonico sempre alla Scuola Superiore di Architettura, entra nello studio di Raimondo D’Aronco, figura prestigiosa del Liberty italiano, con lui collabora al progetto del nuovo Palazzo Comunale di Udine, un iter lunghissimo, sarà inaugurato solo nel ‘32, è imponente, retorico, eclettico, gli interni occhieggiano alla Secession viennese, nel frattempo però l’architettura batteva altri sentieri.

Gli cadde a pennello vincere il concorso governativo d’una borsa di studio da spendere  in soggiorno all’estero, lui scelse i banchi de l’École des beaux-arts de Paris,1908-1910, poi la voglia d’allargare gli orizzonti lo porterà a Costantinopoli, infine a Roma e la Città Eterna gli fu Musa della sua di architettura, incentrata su l’interdipendenza tra funzione e forma, è la pianta, razionalmente concepita, perciò l’interno, a determinare i prospetti, Le Corbusier pensava lo stesso ma Giovannino teneva nel bagaglio il “classico” romano di Boito.

In quegli anni stappa lo spumante di un’altra vocazione, la pittura, cimentandosi in una tecnica molto difficile, l’acquarello, incoraggiato anche dai riconoscimenti avuti come il primo premio alla mostra del 1911 degli acquarellisti lombardi al palazzo della Società di belle arti di Milano.

Per 15 anni pennelli e bulini lavoreranno in parallelo a squadre e lapis, anche i disegni di architettura sperimenteranno i colori, un rendering da artista di scuola lombarda, manualità artigianale, il suo DNA di figlio-apprendista d’un fabbro.

Nel ‘14 sposa Rosa Labus, nipote dello scultore Giovanni Antonio Labus, pronipote dell’omonimo archeologo-epigrafista, gli darà una figlia, Giulia Rosa, morta nell’agosto di quest’anno a 106 anni. Quando il Regno d’Italia spara all’Austria-Ungheria, Giovannino è chiamato alle armi o per meglio dire al bulino, la sua consegna è creare acqueforti poi riunite nel volume L’ industria italiana per la guerra 1915-18 edito solo nel 1926 ed è suo il Bollettino della vittoria firmatoComando Supremo-Diaz il IV Novembre 1918, per solennità e magnificenza ricorda le tavole incise da Giovanni Battista Piranesi su Roma antica.

Nel dopoguerra torna al tavolo da disegno, piovono committenze private, fino allora solo una casa costruita, la villa di famiglia Greppi-Frizzi a Varenna, lago di Como, adesso progetta abitazioni meneghine, merita menzione casa Collini in via Statuto,12, è il 1919, gran rigore formale, bow-window verticali scandiscono la facciata interrompendo a capanna la lineare pendenza delle falde.

Sempre nel ‘19 si cimenta col teatro, la scenografia, collabora co’ l’architetto veronese Ettore Fagiuoli all’allestimento dell’Aida verdiana nell’Arena di Verona, un primo passo nel mondo del palcoscenico cui ne seguiranno altri per la prestigiosa Scala di Milano.

Parentesi sulle ferie estive, la famiglia Greppi, dagli anni ‘20, le trascorre in Val Vigezzo, detta la valle dei pittori, prossima al Canton Ticino, là riapre il cavalletto, la scatola dei colori, fissando incantati paesaggi alpini oltre a seguire la costruzione di ville per amici, le seconde case sparse tra i borghi da Craveggia a Vocogno, tra le quali il proprio rifugio craveggiano.

Il clou professionale l’ebbe dal ‘25, fu incaricato di progettare ex nihilo l’insediamento urbano dell’industria siderurgica Stabilimenti Dalmine di proprietà statale, alle porte di Bergamo, un villaggio completo di infrastrutture, alloggi per operai, impiegati, edifici pubblici, la scuola, una chiesa, strade, piazze, verde pubblico, impianti sportivi persino un pensionato. Un nucleo urbano in continua espansione demografica, Dalmine divenne un modello di integrazione tra industria-lavoratori-territorio, forse stimolò Camillo Olivetti a costruire un primo nido di case ai dipendenti, a Ivrea, Adriano raccoglierà quel filo paterno completando ciò che diverrà un patrimonio UNESCO.

L’architettura di Dalmine è asciutta senza concessioni all’ornato, razionalista nel rispondere alle funzioni d’utilizzo degli spazi, pragmatica, in linea con la laboriosità lombarda, spoglia di boria retorica agghindata con la bava del passato, un lavoro pulito che l’occuperà fino al 1938.

Tra gli anni ‘20 e ‘30 infuriava in Italia lo scontro tra modernismo e tradizione, il vettore futurista declinava all’occaso, lo stile ufficiale era Novecento italiano di Margherita Sarfatti, il MIAR cercò di porre fine “alle tavole degli orrori” di rimasticature classiche ma i Calza-Bini, Sartoris, Piacentini vinsero chiudendo la saracinesca per mano del sindacato fascista degli architetti. Greppi restò fuori da quel duello e dalla diaspora dei razionalisti, convinto che l’artista e la sua arte volassero più in alto delle zuffe ideologiche, da professionista offriva alla committenza le sue creazioni senza lacci di partito, però, a dirla tutta, negli anni ‘30 sul moderno funzionalismo progettuale incollò stilemi decorativo-monumentali.

Durante gli anni della Dalmine soddisfò altre commesse, diverse tra loro, vedi lo stadio Senigaglia a Como (1926), il padiglione dell’Irpinia alla Fiera campionaria di Milano (1927), la centrale elettrica al Piottino a Lavorco in Canton Ticino (1930), tre esempi del suo percorso innovativo anche nella scelta di materiali d’avanguardia quali il calcestruzzo armato, il ferro, il vetro.

Arrivano le banche! Giovannino progetta la nuova sede della Banca popolare di Milano in piazza Crispi, ne cura con meticolosità gli interni, compresi gli arredi, attento a definire tutti gli spazi in ragione necessaria e sufficiente all’uso, ma sulla facciata cede alla pompa dell’Istituto, il prospetto è un messaggio di solida imponenza, ha la faccia di un tempio laico, ordine gigante delle colonne corinzie, architrave, cornice, timpano finale. È una severa fortezza del denaro, Greppi s’era accomodato sulla poltrona del RAMI la stessa di Giovanni Muzio col quale progettò la sede della Cassa di risparmio di via Verdi sempre a Milano.

Ma veniamo al cuore di questa breve biografia, la sua vera ragion sta nei sacrari militari, luoghi che custodiscono i resti di chi s’è reso degno di pubblica memoria, soldati, ufficiali, immolatisi per la Patria nel primo conflitto mondiale, a loro dobbiamo, scattando sull’attenti, il grido: Presente! Retorica di regime? No, sui morti non si celia, ci parlano muti ancor oggi di un sentire nascosto tra le pieghe, nel guazzabuglio quotidiano, oltre il terrorismo pandemico, è il sacrificio d’amore per una Patria comune ch’è riemerso anche in questo novembre.

Giuseppe Greppi prestò la sua opera nel progettare i sacrari del ricordo dal mitico Monte Grappa agli ossari di Pian di Salisei, Timau, Caporetto, San Candido e soprattutto il monumentale sacrario di Redipuglia del 1938 in collaborazione con lo scultore Giannino Castiglioni.

Siamo nel Friuli-Venezia Giulia, Redipuglia è una frazione di Fogliano in provincia di Gorizia, qui scorre l’Isonzo teatro di furibonde battaglie (ben 12 fino a Caporetto) delle nostre truppe contro le austro-ungariche, l’ultima fu una disfatta, il punto zero, ma mutato il Comando, divenne strenua resistenza e contrattacco.

Camminiamo alle pendici di monte Sei Busi, dinanzi a noi respira un ampio piazzale con la via Eroica, in alto domina un’enorme scalinata preceduta dalla tomba di Emanuele Filiberto duca D’Aosta Comandante della 3^ Armata co’ ai lati i sepolcri dei suoi generali. Disponendoci al centro, la prospettiva dei ventidue gradoni ricorda volutamente lo schieramento militare, son tutti lì i corpi di 39.857 caduti, alzata dopo alzata, perfettamente allineati, ciascuno con la targa di bronzo a tramandarne il nome e per ognuno a sbalzo sta scritto: PRESENTE, quasi voce stentorea di risposta alla chiamata d’un ufficiale.

Al ventitreesimo, lassù, entro due grandi tombe ai fianchi della cappella votiva, riposano i resti di 60.330 militi ignoti, su loro si stagliano le ombre di tre croci luminose simbolo del Calvario, del sacrificio gratuito, senza neppure un nome a quel sangue versato al risorgimento patrio.

Redipuglia è il più grande sacrario d’Italia, uno dei più grandi d’Europa, un cimitero monumentale, nel significato etimologico del termine, dal latino monere, ricordare, seppur noi siamo un paese senza ricordi, il che equivale a dire senza Storia come osservava amaro Pasolini.

Questo articolo è un grazie a Giovanni Greppi architetto medico della nostra amnesia, non fu un rivoluzionario in architettura secondo la critica incipriata d’internazionalismo, ma ci ha lasciati due segni importanti, Dalmine e i sacrari, l’Italia proiettata nel futuro con radici nella memoria.

Durante la seconda guerra mondiale, soprattutto dopo il ‘41, si ritirò nel suo rifugio di Craveggia in Val Vigezzo, scarse le commesse da architetto, tanta pittura, di lì a poco Milano sarà più volte bombardata, gli Alleati avevano vinto, la Repubblica sociale implodeva, l’Italia voltava pagina.

Negli anni ‘50 del boom economico Giovannino progetta ben ventuno sedi della Banca popolare di Novara oggi gruppo BPM, riavvolse il filo delle sue esperienze declinando un genere sospeso fra soluzioni funzionali ben risolte e abito esterno che, come i bancari, è giacca e cravatta.

Per le conseguenze legate a un grave incidente stradale occorsogli nel ‘59, si spense nell’aprile dell’anno seguente.

Grazie di tutto Giovannino.

Foto: Giovanni Greppi, Sacrario di Redipuglia, Gorizia, 1938

9 dicembre 2021