di Lorenzo Marinoni
Quando la coscienza ordinaria è desta in realtà sogniamo, ma questo sogno ci dà la tranquillità relativa di appartenere tutti allo stesso mondo solo perché i suoi contenuti sono identici a quelli degli altri. Crediamo così nell’illusione ottica dell’esistenza: di non sognare affatto e di avere di fronte un mondo oggettivamente reale.
L’oggettività della coscienza astratta trova del resto naturale fondamento nella costituzione psicofisica che accomuna tutti gli uomini normalmente evoluti, in virtù della quale essi si relazionano con il mondo. Ma questa costituzione, se inosservata da un Io desto, ovvero autocosciente, è appunto la causa dell’illusione: cioè del deliquio dell’anima nel suo sogno spazio-temporale, altrimenti detto – ironia della sorte – vita di veglia.
Il sogno ingannevole del realista ingenuo (di colui che “crede in ciò che vede”) può protrarsi per tutta la vita, ma talvolta può anche accadere che nelle profondità dell’anima dormiente, laddove lo spirito tenti di svegliarla, si scateni un terremoto.
Il sintomo superficiale di questo sommovimento spirituale sotterraneo è la sensazione di inettitudine circa il sapersi muovere nel mondo così come si è sempre fatto, da beati sonnambuli in compagnia di beati sonnambuli, fino al giorno prima.
Come l’immaginazione soppianta la percezione nella ragazza anoressica che di fronte ad uno scheletro coperto di pelle si veda pervicacemente grassa, così la persona che perda le coordinate della vita codificate nel sogno grazie al quale era convinta di vivere, crede di non sapersi più nemmeno allacciare le scarpe e vuole in ultimo rimanere solamente a letto. La posizione orizzontale quiescente è sia quella dell’infermo che reclama compassione, sia quella del cadavere, simbolo di liberazione finale dall’incubo della vita sognata, sia – paradossalmente – quella di chi vorrebbe tornare a dormire affinché la sua anima venga riportata al più presto in quel rassicurante sogno di prima.
È evidente che in una tale condizione l’anima è prigioniera di sé stessa.
L’uomo in cui pulsi tale dolore esistenziale si sente ad un tratto in esilio dall’Umanità che credeva di conoscere, ma al contempo oppresso dalla costrizione di condividere la prosaica quotidianità con spettri evanescenti e grigi quali gli appaiono ora gli altri esseri umani. Si tratta della lotta che l’anima ingaggia con un nemico che non sa vedere perché è parte di sé stessa. Esso consiste nella penosa limitazione di una coscienza terrestre che annaspa nel fango della psiche reattiva ed emotiva non sapendo trovare la via per autotrascendersi.
In tali frangenti l’anima dell’uomo è dilaniata da due forze di segno opposto: una che la estrania dalla comunità umana e l’altra che la estrania da sé medesima. Ad essa manca sia la terra sotto i piedi che un appiglio celeste. La distanza tra lei e il mondo le appare incolmabile. La natura le resta muta ed ogni empatia con le altre anime che le dovrebbero essere affini è azzerata.
L’uomo affetto dal “male di vivere” di cui parla Eugenio Montale sperimenta il ghiaccio e il fuoco come facce coesistenti dell’Inferno dantesco. Egli arde di un fuoco che lo consuma come un satellite uscito dall’orbita in accelerazione esponenziale prima di schiantarsi al suolo vinto dalla gravità ed al contempo vaga nel nulla cosmico come una sonda spaziale abbandonato alla sua deriva nella fredda oscurità senza fondo di un Universo insensato una volta superati i limiti di progettazione. Ed è proprio lì, sulla soglia del baratro della disperazione animica e dell’autodistruzione fisica, che comincerebbe quella libertà che gli fa tanta paura. Egli vorrebbe supplicare aiuto a tutti, ma ne è paralizzato, non sapendosi decidere se sia per un malsano orgoglio o per una sana reticenza il ritenere per lui inopportuna la domanda: mi dici chi sono?
Pertanto questo naufrago nel mare della propria anima mestamente tace e si macera nel dramma di una solitudine inquieta, la cui consolazione non gli riesce in sostanza nemmeno di concepire.
Egli vorrebbe dire ma non può perché la sua parola gli viene ricacciata in gola dalla certezza che resterebbe, ed a ragione, incompresa. La spietata verità che l’anima orfana dello spirito non vuole accettare è che non puoi chiedere ad un tu chi sia l’Io che gli pone la domanda. Io è infatti il nome che ogni uomo può dare solo a sé stesso e ciò nonostante vi è contenuto il segreto della comunione con gli altri uomini: il cui svelamento ha però un prezzo.
Il prezzo del risveglio è l’amaro calice da cui l’essere umano deve bere per potersi emancipare da tutti i sostegni morali ereditati da una tradizione passivamente recepita e trovarsi infine faccia a faccia con l’involucro o maschera che egli ha sempre creduto di essere, senza esserlo.
Tale stato psichico o animico è ciò che comunemente si chiama “depressione”.
Non c’è altra via per uscire radicalmente da una condizione dell’anima così “radicale” se non prefigurandosi la possibilità di incontrare ogni altro uomo su un piano diverso da quello abituale sognante.
Per salvarsi da un inferno di fiamme che la bruciano dall’interno come un’anima dannata, prima che il corpo muoia l’anima umana deve trovare il luogo immateriale in cui, risorgendo dalle sue proprie ceneri non più interamente soggiogata dalle necessità del corpo e della psiche animale, possa avvenire la comunione con altre anime umane per tramite di una Forza o Entità superiore, chiamata dal cattolicesimo Spirito Santo o Spirito di Verità.
Ecco allora che il fuoco smette di far palpitare una ferita a cui non riesca di rimarginarsi o di macerare le viscere in una sofferenza ottusa e senza scopo, cominciando invece a illuminare la mente e a scaldare il cuore. Lo Spirito di Dio, che coniuga per sua natura Luce e Calore, può ora accompagnare l’uomo nella sua vita nuova.
Foto: Idee&Azione
6 marzo 2023