di Lorenzo Marinoni
Dietro la mistificazione del linguaggio volta a spacciare un dovere – quello di lavorare per la sopravvivenza – come un diritto da pretendere riconosciuto, o addirittura un privilegio fonte di nobilitazione morale, si nasconde un errore di pensiero.
La ricerca del “colpevole” non deve dirigersi verso un nemico esterno, ma riguarda il modo diffuso e condiviso di trattare la questione sociale.
Mi riferisco a quel qualcosa che accumuna ideologie di destra e di sinistra e che fa da sfondo ad ogni discussione politica, rimanendo inosservato.
Proprio la trascuratezza di questo intruso porta a considerazioni fallaci e perciò a proposte inefficaci, se non responsabili della recrudescenza del male che si vuole combattere.
Il recente “regime pandemico” ha mostrato chiaramente il superamento delle divisioni ideologiche classiche a favore di una sorta di dittatura mascherata, o “dittatura democratica”, incolore manifestazione pratica della “tela” globalista: quella dipinta con le peggiori tonalità del nero e del rosso nel ritrarre il suo sogno nazicomunista.
Ma cosa ha permesso, a ben guardare, che si verificasse questo sposalizio infernale, generatore di un mostro ibrido, per il quale il comunismo ideale verrebbe realizzato da un gregge di cyborg low cost dominato da un’élite di cowboy-cyborg avanzati?
La radicata fiducia nella bontà dello statalismo.
Le politiche autarchiche di destra sono sotto questo aspetto molto simili alle politiche sociali delle sinistre: entrambe infatti, seppur con obiettivi immediati diversi, miravano e mirano al benessere sociale concentrando poteri nelle mani dello Stato.
Le stesse conquiste della democrazia, come l’istruzione e la sanità pubbliche, presupponevano e presuppongono la legittimità di principio di un’educazione e di una medicina di Stato, le cui conseguenze nefaste abbiamo toccato tristemente con mano di fronte ad insegnanti e sanitari sospesi perché contrari appunto alle ragioni di Stato.
Inoltre tutto l’apparato ricattatorio che i Governi Conte e Draghi hanno utilizzato per coartare le libertà fondamentali degli individui si è fondato proprio sull’ipertrofia del pubblico sul privato.
Chi avrebbe mai potuto dire ai cittadini che i loro arresti domiciliari causa pandemia si erano resi necessari per la mancanza di posti letto negli ospedali pubblici, se non soggetti sicuri di trovar del tenero facendo leva sul pregiudizio della naturale subordinazione dell’individuo allo Stato?
Sto parlando di uno Stato a cui l’accondiscendenza acritica dei cittadini ha permesso di assumere proporzioni elefantiache, invadendo ambiti che – secondo i principi antroposofici, peraltro agevolmente condivisibili – non dovrebbero essere di sua competenza.
È quindi superficiale e fuorviante additare come causa degli arresti domiciliari di massa – perché di un ghetto grande una Penisola si è trattato – il malgoverno di una classe politica che avrebbe sconsideratamente tagliato la spesa pubblica per la sanità. Così come non coglierebbe nel segno dare la colpa in senso lato ad una macchina legislativa e burocratica troppo lenta e inefficiente perché farraginosa e disfunzionalmente complessa.
Il punto cruciale dove è possibile con estrema concretezza agire per contenere la velenosa esuberanza dello Stato è la tassazione, per come è da sempre concepita. Non si tratta quindi di cadere nella diatriba astratta e senza soluzione tra “più Stato” e “meno Stato”, ma di scardinare un elemento fattuale tramite il quale si esprime l’invadenza dello Stato, a favore di un’alternativa, altrettanto fattuale.
La sorgente di ogni statalismo distruttivo risiede nella modalità in cui lo Stato acquisisce denaro, che è quella della fiscalità reddituale: l’idea cioè che lo Stato possa legittimamente prelevare una parte dei ricavi di chi trae vantaggio economico dal fatto di inserirsi con successo nella vita economica stessa.
Ciò significa in prima battuta interferire con la libera iniziativa dell’imprenditore, che insieme al consumatore costituisce il protagonista della genesi di ogni fatto economico.
La disputa storica tra destra e sinistra si è sempre svolta sulla falsariga dell’entità della tassazione reddituale: alleggerirla secondo le istanze dei partiti padronali e inasprirla secondo le istanze dei partiti proletari. Ma né destra né sinistra, mosse solamente da una diffidenza umorale e ancestrale di classe, hanno mai messo in discussione, sottoponendolo ad un esame critico e spassionato, il criterio stesso della tassazione.
La proposta antropocratica avanzata dall’imprenditore Nicolò Bellia si prefigge invece proprio questo obiettivo ed individua la soluzione all’ingerenza indebita da parte dello Stato nei confronti dell’economia reale nello spostamento dell’intero prelievo fiscale sulla massa monetaria circolante. Questo significa tassare il denaro, che è un valore finanziario neutro, invece di tarpare le ali alla realizzazione di idee che singoli uomini intraprendenti vorrebbero tradurre in beni e servizi.
Da una prospettiva antroposofica e antropocratica, la “febbre sociale” non è causata dall’animosità che contrappone ricchi e poveri, come hanno sempre creduto destra e sinistra, ma dallo sconfinamento indebito dello Stato in un ambito dell’organismo sociale che non gli compete, vale a dire dove avvengono gli scambi economici.
Il superamento della contrapposizione tra destra e sinistra, che i centri di potere globalista vogliono continuamente riattizzare secondo il vecchio paradigma del “divide et impera”, può invece concretizzarsi proprio nel riconoscimento dell’errore di pensiero compiuto da entrambe le parti e nella conseguente coalizione verso un progetto di riforma della cosa pubblica che possa tagliare gli approvvigionamenti ideologici alle ambizioni autoritarie e decadenti di pochi a danno di tutti.
Il confronto non deve vertere – come detto – sulla generica indecisione tra “più Stato” e “meno Stato”, ma convergere verso l’individuazione della patologia per la quale lo Stato deborda dalla sua sfera di influenza legittima ed approdare infine al riconoscimento delle misure adatte per attuarne la terapia.
Poiché ogni uomo prima pensa e solo dopo fa, non è realistico credere di poter fare qualcosa di sano senza prima averlo pensato nel modo giusto.
La distanza tra le parole e i fatti deriva dall’indulgenza verso preconcetti ideologici, ovvero pensieri pensati a metà e colorati di personalismi, che non possono incidere se non in forma distruttiva sulla realtà.
Se al contrario si riconosce in campo sociale la bontà della distinzione tra sfera culturale, giuridica ed economica, si conviene anche sul fatto che lo Stato dovrebbe concentrare tutte le proprie forze nella tutela della sicurezza attraverso un’efficiente gestione della Giustizia, astenendosi dai compiti impropri che lo vedono oggi responsabile di una vita economica drogata, a favore di clientele e cartelli e a discapito del Libero Mercato. Sì, perché quest’ultima espressione, scritta in maiuscolo, può avere una realizzazione compiutamente positiva solo se le merci sono libere da qualsivoglia tipo di tassazione.
Oggi i dissidenti al Pensiero Unico globalista si stracciano facilmente le vesti di fronte alle privatizzazioni di quel capitalismo liberale su cui si innesta il globalismo stesso, senza rendersi conto che il vero ostacolo ad una società giusta è lo statalismo per come qui inteso. Quella della “liberal-democrazia” è un’idea astratta in cui il concetto di libertà, che può essere solo realizzazione individuale, viene associato pretestuosamente ad una forma politica solo per poterla innalzare al di sopra di tutte le altre, conferendo un’ipocrita legittimazione morale alle spinte egemoniche e neocolonialiste delle talassocrazie occidentali.
Foto: Idee&Azione
5 maggio 2023