di José Vicente Pascual
Fino a poco tempo fa, le grandi masse, adagiate nella mitezza e nell’ozio senza senso, si sono ora risvegliate all’azione in un incubo terrificante. La demagogia “progressista” non fa distinzione tra diritti oggettivi e soggettivi – tutti sono diritti, e l’assenza di diritti è vista come un ostacolo insormontabile alla felicità universale, che ha tre solidi pilastri su cui intende poggiare nella storia: il sacrificio, l’obbedienza a un’unica fede e la povertà, che fin dall’antichità sono stati considerati la più alta virtù. Questo è il piano dei padroni del mondo, per la soddisfazione dell’avara “sinistra”.
Prima della crisi del 2008, la “sinistra” era favorevole ai sindacati e si sentiva bene con se stessa. Da quel giorno sono diventati lamentosi, rumorosi ed eccessivi, cioè hanno cominciato a risentirsi. Se c’è stato qualcosa di positivo in questo fiasco, iniziato con il fallimento di Lehman Brothers e il crollo del modello di sviluppo immobiliare negli Stati Uniti, è che ha dimostrato che il famoso “welfare state”, punto di riferimento canonico per tutte le socialdemocrazie del pianeta, era insostenibile in un’economia speculativa.
Nei decenni precedenti e fino a questo momento, la “sinistra” e i movimenti neoprogressisti occidentali, una volta abbandonato di fatto ogni obiettivo strategico, si erano affermati come una sorta di Pax Romana all’interno del sistema capitalistico, dedita alla trasformazione della vita quotidiana e dei costumi, in linea con l’ideologia piccolo-borghese degli anni Sessanta, e quindi di gradimento soprattutto dei progressisti francesi, italiani e spagnoli.
Non era più importante fare una rivoluzione – impossibile tra le tante – ma far credere che fosse già stata fatta o che si stesse facendo. Così il buon militante “di sinistra” dell’epoca era sia un teorico, attento all’educazione e al galateo sociale, all’uso obbligatorio del cosiddetto linguaggio inclusivo e al politicamente corretto in tutti i suoi aspetti; sia un uomo sobriamente allegro, esperto di gastronomia ed enologia, di film di Woody Allen e Pedro Almodóvar e di romanzi polizieschi, soprattutto quelli di Vásquez Montalbán.
Pur ammettendo le sue contraddizioni – poco scandalose in un mondo scandalosamente ingrato – il progressismo degli anni Ottanta e Novanta viveva senza entusiasmo tra le risate della Movida Madrileña, tra l’ingenuità quasi culturale della Ruta del Bacalao e la generosità degli assessorati alla cultura dei comuni. La Spagna era un luogo di festa
Ma tutte le cose belle prima o poi finiscono, e questo sogno di cittadini inquieti non poteva fare eccezione. Il crollo spettacolare del modello di welfare stabilito ha portato al discredito della socialdemocrazia – così improvviso e feroce da essere difficilmente temporaneo – e all’emergere di nuove formazioni politiche “a sinistra” del PSOE e del CPR, che hanno trascinato massicciamente dietro di sé settori sociali precedentemente collettivizzati che si sentivano emarginati – perché tali erano – nella distribuzione dei compensi del sistema. I primi a entrare in scena erano accomunati dal fatto di non avere nulla da perdere e dalla quasi totale mancanza di esperienza e di formazione teorica. Con un sottile dogmatismo tipico di chi ha poche idee e si aggrappa disperatamente ad esse, questa marea di proteste e intransigenza ha prodotto un nuovo paradigma di impegno non progressista: una massa di utenti condizionati di Twitter incapaci di leggere più di 140 caratteri di fila; femministe tossiche che confondono la maleducazione con la noncuranza e l’ubriachezza con l’emancipazione femminile. Insomma, persone senza una direzione precisa, anche se molto risentite nei confronti del sistema.
Come quattro decenni fa, oggi, dopo le prime rivolte, il conformismo all’interno del sistema sta assumendo una forma di vita quotidiana e si sta affermando come alternativa all’impossibilità di cambiare qualcosa di sostanziale, e come modo di vivere come se tutto stesse cambiando.
La differenza tra le “sinistre” primitive, che riciclavano le loro proposte rivoluzionarie per renderle un’esperienza di routine, e quest’ultima generazione di persone mobilitate, a mio avviso, è duplice. I primi facevano la doccia tutti i giorni, i secondi una volta ogni quindici giorni circa. E i nuovi antisistemici paradossalmente coincidono nelle loro ricette per aggiustare il mondo con le élite globaliste che gestiscono gli ingranaggi dell’ordine costituito. Il loro attaccamento sentimentale a personaggi come Greta Tunberg, Zuckerberg, Beyonce o Kamala Harris, i loro riferimenti estetici raccolti nei contenuti di piattaforme televisive come Netflix o HBO, le loro visioni ambientaliste simmetriche al discorso delle grandi compagnie energetiche, le loro scuse per la salute pubblica che sembrano copiate da qualche compagnia di assicurazione sanitaria. ci dice meno della loro debolezza teorica che del fatto che alla “sinistra” tradizionale è rimasto poco spazio per articolare discorsi alternativi, e di quanto profondamente la propaganda egualitaria delle élite sia penetrata nelle masse che pensano acriticamente – quasi universalmente. In sostanza, le élite vogliono che siamo uguali. Poveri e uguali, adattati all’instabilità, svantaggiati nella ricerca e forse nella conservazione di miseri posti di lavoro. In cambio, gli onnipotenti offrono ai loro pastori un pacchetto completo di nuovo benessere emotivo: internet a un prezzo ragionevole, social media dove tutti sono qualcuno – per quanto vogliano convincersi di esserlo -, brillanti slogan “antifascisti” contro i contenuti insulsi e ideologicamente insipidi dei programmi televisivi preferiti.
Al momento non c’è altro da fare. Superare questa nuova ribellione morale delle masse sarà difficile o facile come cacciarli dal divano e dai loro profili TikTok. Insomma, non si sa se accadrà o meno, perché non si sa mai con certezza.
Traduzione a cura della Redazione
Foto: Idee&Azione
6 aprile 2023