di Jean Córdova
In origine l’immenso Empireo popolato di immensi tesori, infiniti pensieri e molteplici immagini, ossia l’infinita vastità celeste, generava nello sguardo degli erranti poeti e di tutti quegli esseri pensanti e puri terrore, paura, turbamento, sgomento, infinito stupore, meraviglia: una sublime e complessa e avvinghiata emozione, una forte reazione al mistero della creazione, della vita e della morte chiamata dagli antichi filosofi greci come Platone nel Teeteto e Aristotele nel primo libro della Metafisica il Thaumazein, lo Thauma: per il filosofo in primis e per l’essere umano un fortissimo smarrimento, una stordente ed intensa emozione di fronte all’Immenso, alla sconfinata Natura e ai suoi complessi sistemi; un irraggiante nucleo o il Tutto dal quale la gloria di Dio continua a manifestarsi interamente e a pervadere con la Sua sconvolgente potenza l’intero cosmo rendendo estensioni del Suo pensiero e dell’amore per mezzo della sua stessa Luce onnisciente,«Ego sum lux mundi; Io sono la luce del mondo (Gv. 8,12)» ogni psyché (l’anima, il respiro vitale) e i suoi celebri costituenti: il nous (nella filosofia neoplatonica l’occhio spirituale), il phren (il pensiero complesso e articolato), e il thymos (il sentimento, il cuore, l’anima emozionale). Ergo, dal terrore verso tale mistero l’essere umano principiò, oltre la primaria oscurità adagiata sul suo volto, a percepire e a ricevere all’interno di sé quella prima luce, spirituale, emanata del deiwos o del theos creatore; luce oltrepassante i limiti del tempo e dello spazio e del corpo materiale e di ogni suo componente: luce in sé originata dal terrore, dalla terribilità inferta dall’Essere ai sensi: connessione fra il primum movens (la causa prima o l’Essere primo) e l’umano sentire. Lux come unione fra la creatura e il creatore, fra la natura naturans terribile e al contempo meravigliosa e la natura naturata conseguenza del pensiero divino: la sua splendente idea in divenire, amata, contemplata e immanente: telos ultimo e soffio vitale della Sua complessa creazione.
Da bambino gettato nel mondo o meglio nel kosmos, la ‘gettatezza’, ossia il nostro esser-ci (l’essere-qui, un progetto), l’essere-nel-mondo, come la definì il filosofo tedesco Martin Heidegger nel suo celebre trattato Essere e tempo del 1927, come Ulisse di fronte all’ignoto, ero solito come quell’antiche genti, persino ora da adulto, nelle notti estive, osservare disteso su rocce granitiche, su i prati o sulle sabbie bianche di fronte alla profonda oscurità marina riflettente quel cielo primordiale, circondato dalla Natura, l’intero frammento del firmamento visibile sopra la mia testa, costellato di centinaia di miliardi di stelle, materie delle quali siamo origine e fine; meditando su quell’immensità, e su quei corpi celesti sfavillanti e fluttuanti distanti ma dialoganti con l’Intero nel vuoto cosmico, lo sgomento e la meraviglia suscitavano in me, nella mia anima e in tutto il mio corpo molteplici vibrazioni, emozioni non sempre definibili e decifrabili: sublimi istanti vissuti nel cuore, nell’anima e nella mente di fanciullo che fui, e in parte ancora oggi custoditi nel cuore, nell’anima e nella mente di adulto che sono. L’immenso ignoto non catalogabile e l’infinito mistero di fronte ai miei ‘occhi’, organi definiti nel Timeo da Platone «phósphora (portatori di luce)», produsse in me un’attrazione fortissima per quelle luminosissime estensioni sconfinate oltre alle quali solo il pensiero e l’amore oltrepassano poiché manifestazioni dello spirito di quella potente lux divina: lux come un’idea trascendente, ‘anima del mondo’, generatrice di mistero e di vita. Ed è proprio tramite quegli antichi e luminosi sguardi rivolti verso quell’originaria e luminosa espansione che, mediante dis-velativi dialoghi cosmici, gli esseri pensanti e puri poterono incontrare l’infinito inondando le loro anime (ψυχαί – psychài) e i loro corpi (σώματα – sòmata) di quella luminosissima Luce metafisica (aliquod genus lucis). Alla vista di quelle singole e finite entità – propense con meraviglia ad osservare quel fulgido ed immenso spazio luminoso – l’Assoluto dichiarò ad esse il Suo eterno amore trascendendo i limiti del sensibile, dunque della realtà fisica; in ognuna di esse e in ogni parte delle loro anime, dei loro cuori e delle loro menti, l’Infinito si fece immanente per mezzo del logos, dello spiritus e dell’agàpe nelle sembianze di Luce, quell’‘anima mundi’ tanto cara agli antichi; tenendo tali prime entità pensanti legate all’Essere primo e al Suo perfetto ‘sistema cosmico’, metafisico e incorporeo, spirituale, non legato ma legante il sensibile-visibile all’invisibile mediante quella stessa folgorante Luce esperienziale e sapienziale (la dottrina dell’incorporazione della luce), Esso si estese nel mondo come sostanza luminosa e irraggiante. Se in un’epoca come quella attuale, nichilista e massificante priva e privata di spazi luminosi e spirituali e di meraviglia verso quell’estensione, l’umanità desiderasse fortemente tale maestosità, osservando e meditando su quei luoghi sensibili e celestiali nei quali dimora quella Luce divina irraggiante, percepirebbe se stessa come Lux: come anima incastonata in una delle infinite stelle luminose disseminate in quella immensa volta celeste, percependo e sentendo oltre i propri sguardi materiali il senso della propria vita, il senso dell’amore, il principio dell’esistenza e l’essenza delle‘cose’ in divenire – prime ed ultime – scandite dai lunghi tempi del Cosmo e della Natura: Luce come Cura autentica al dissolvimento dell’Esser-ci nel nulla.
Le locuzioni bibliche «Γενηθήτω φῶς, Genetheto phos: Sia la luce», antica espressione greca tradotta dalla lingua ebraica «yehiy ‘or», e «Fiat Lux: Sia fatta luce» (Cfr., Genesi 1,3) alludono al primo e grandioso atto misericordioso compiuto dalla Natura naturans, ossia Dio (Deus sive Natura), in quanto causa libera e prima; una azione come agàpe1 (amore disinteressato e smisurato) verso la Sua stessa Natura, quella Natura definita naturata dal filosofo olandese Baruch Spinoza2: una natura pensata, creata, manifesta e in-formata dall’estesa Sostanza, della quale noi esseri umani, assieme a ogni componente della stessa, siamo parte integrante e operante, movimento e Sua espressione spirituale. La Luce, simbolo della salvezza, come verità metafisica e fisica, rendendo manifesti tali ambiti conoscenziali, diviene il mezzo rivelativo e di-svelativo delle innumerevoli estensioni circondanteci, donando ad esse, le res, chiarità, la quale ancora oggi continua a sbarrare l’ingresso agli abissi e alle sue acromatiche, profondissime e infinite e logoranti tenebre prementi e calcanti le nostre singole anime e i numerosi movimenti emanati dalle nostre singole psiche. Nel sublime Prologo del Vangelo di Giovanni l’evangelista affronta il tema della Luce, ‘anima del mondo’, diveniente fonte di verità e di vita; un’Epifania luminosa fondata sulla Ragione portatrice di Bellezza nell’esistenza: «[…] e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Cfr., Prologo del Vangelo di Giovanni 1, 4-5); «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Ivi, 1, 9); Benedetto XVI il 21 novembre del 2009 rivolgendosi ad una compagine di artisti all’interno della Cappella michelangiolesca, la Sistina, cercò di chiarire il puro senso dell’autentica bellezza, la quale facendosi Luce disgiunta dalle tenebre, folgorando e disserrando un varco, un passaggio all’interno dell’umana interiorità, per mezzo della stessa e del Logos, dischiudendo e di-svelando l’Ineffabile azione aprì «il cuore umano alla nostalgia (aspirazione del primo luogo), al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé»; ‘bellezza’ dunque messa in opera dalla potenza folgorante della Luce e dal Suo manifestarsi e dal Suo compiersi; l’evangelista Giovanni inoltre ci conferma che la Luce e il Verbo (ossia il Logos, la Parola, la ragione) sono consimili, entrambi portatori di verità: Luce e Verbo immanenti nel volto splendente di ogni singolo essere umano poiché trascendenti da un’unica azione d’amore divina messaggera di veridicità.
Nelle grandi civiltà preistoriche e storiche, dall’Egitto faraonico della XVIII dinastia, con Amenofis IV il futuro Akhenaton (XIV sec. a. C.), all’arcaica teologia indiana dei Rigveda3, dal buddhismo sino a un completo capitolo o “sura” del Corano4, la XXIV, versetto XXXV, intitolata An-nûr, dedicata alla tematica della Luce, folgorante rivelazione spirituale emanata e diffusa dal Dio unico, l’essenza luminosa popola i testi più antichi: «Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente.»; una Luce che, varcando il fenomeno fisico e assumendo nel mondo fenomenico un primordiale valore metaforico, diviene archetipo simbolico, origine senza riserve dell’intero universo nel suo stesso apparire e nel suo stesso persistere: ed è qui che il trascendente, squarciando le tenebre e oltrepassando la silenziosa segretezza primordiale, generò, mediante l’atto informante primo, luminoso e meraviglioso della Luce, il nostro creato, il quale così ai nostri occhi appare4, percepito con il resto dei sensi.
Il messaggio biblico, al contrario, differendo dalle altre civiltà e dalle altre forme panteistiche secolari che identificarono e ancora identificano la Luce (principalmente quella solare) con la loro stessa divinità – es. nell’antico Egitto il dio Aton riconosciuto con la potenza del Sole (il disco solare, unico dio), durante il regno enoteistico, monolatrico o pseudo-monoteistico messo in opera dal faraone eretico Akhenaton, padre del celebre e giovanissimo e suo successore Tutankhamon, – afferma che la Luce non è Dio, ma Dio stesso è Luce. Qui è proprio la trascendenza5 che attraverso una visione simbolica della Luce si fa immanenza6 nel mondo reale per mezzo della potenza e dell’atto divino; presenza divina che resta comunque visibile nella presenzialità luminosa. La natura simbolica cristiana della Luce appare evidente nel libro rivelativo e di-svelativo dell’Apocalisse di Giovanni, nel quale lo stesso asserisce che, nella nuova e celeste Gerusalemme, escatologicamente città ideale del perfetto futuro, «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (Cfr., Apocalisse di Giovanni 22, 5). L’apostolo Giovanni nell’Apocalisse come nel Prologo ci invita a riflettere sul concetto della Luce, ripensando inoltre per mezzo del Suo esistere alla nostra stessa esistenza ammantata di (o)scurità in una società senza limiti: una esistenza priva di Luce separata dal regno della trascendenza, dal luogo primo nel quale l’atto e la potenza si manifestarono pienamente continuando ancora oggi a rendersi evidenti, aprendoci la strada al Divenire, alla Rivelazione, alla Verità, all’Amore e alla Bellezza. Nessun elemento sfugge alla Luce, soltanto le tenebre né sono prive, nelle quali la bontà, la bellezza, l’amore, la ragione, la vita non hanno più forma, né consapevolezza né coscienza né sentire.
La parola greca antica φῶς «phos» e quella latina «lux», tradotte nella nostra moderna lingua, hanno lo stesso significato: ossia Luce, solo Luce. Tuttavia, una Luce che traccia, che separa, che rivela e divide il confine dall’oscurità, segnalando la linea di demarcazione tra la vita e la morte, fra il ricordo e la dimenticanza, tra le forme e la forma primaria del vuoto; una Luce che diviene verità per mezzo dell’esperienza e della conoscenza. Luce che diviene spazio attraverso la forma, qualificando il vedere attraverso le varie manifestazioni del colore contenute già nella sua stessa natura. Una natura, Lux, la Luce, coincidente secondo il filosofo greco Aristotele con il quinto elemento, pèmpton stoichêion (quinta essentia), sostanza eterica, trasparente: ossia, materia eterna e diafana, fluida e sottile che dà forma a tutti gli elementi7; «Così gli antichi Filosofi, e i Poeti dissero l’Etere Anima del mondo, Spirito, Fuoco purissimo, e Motore di tutte le cose, […]»8 . In principio, incorporea presenza – materializzatasi dal pensiero del pensiero del primum movens (primo movimento) –, dopo la creazione del cielo e della terra, ebbe sin dal principio un’estrema importanza per la vita di ogni singolo e piccolo componente della Natura; «Poiché si è sopra detto che le sostanze sono tre, due fisiche ed una immobile: ebbene, dobbiamo parlare di questa eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci il “prima” e il “poi” se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. E non c’è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare. Se, poi, esistesse un principio motore ed efficiente, ma che non fosse in atto, non ci sarebbe movimento; infatti è possibile che ciò che ha potenza non passi all’atto. (Pertanto non avremo alcun vantaggio se introdurremo sostanze eterne, come fanno i sostenitori della teoria delle Forme, se non è presente in esse un principio capace di produrre mutamento; dunque, non è sufficiente questo tipo di sostanza, né l’altra sostanza che essi introducono oltre le Idee; se queste sostanze non saranno attive, non esisterà movimento). Ancora, non basta neppure che essa sia in atto, se la sua sostanza implica potenza: infatti, in tal caso, potrebbe non esserci un movimento eterno, perché è impossibile che ciò che è in potenza non passi all’atto. È dunque necessario che ci sia un Principio, la cui sostanza sia l’atto stesso. Pertanto, è anche necessario che queste sostanze siano scevre di materia, perché devono essere eterne, se mai esiste qualcosa di eterno. Dunque, devono essere atto. […] È evidente, dunque, da quello che è stato detto, che esiste una sostanza immobile, eterna e separata dalle cose sensibili. E risulta pure che questa sostanza non può avere alcuna grandezza, ma che è senza parti ed indivisibile. (Essa muove, infatti, per un tempo infinito, e nulla di ciò che è finito possiede una potenza infinita; e, poiché ogni grandezza o è infinita o è finita, per la ragione che s’è detta, essa non può avere grandezza finita, ma nemmeno una grandezza infinita, perché non esiste una grandezza infinita). Risulta, inoltre, che essa è impassibile ed inalterabile: infatti tutti gli altri movimenti sono posteriori al movimento locale. Sono evidenti, dunque, le ragioni per cui la cosa sta in questo modo.»; qui Aristotele presenta la profonda relazione fra il tempo e il movimento. In realtà il tempo non sarebbe neppure pensabile se ogni elemento della natura rimanesse fisso, inamovibile. Inoltre, il filosofo riscontra che il tempo in quanto tale, generando il «prima» ed il «poi», deve inevitabilmente trovarsi sempre distante da tutto quello da esso generato; in caso contrario, sarebbe un tempo limitato, incompleto e non il tempo in sé. In conclusione Aristotele conferma il bisogno dell’atto puro come procreatore, o meglio generatore, del movimento9. Ed è proprio attraverso quest’atto meraviglioso ‘estremamente divino’, cioè attraverso l’espansività della Luce, mediante il primo movimento (atto costantemente ripetuto), che ogni forma (éidos, morphé), ogni intima natura delle cose, l’essenza, e ogni (hýle), ossia ogni sostanza primaria, ogni materia o contenuto, ogni corpo, ogni massa, ogni particella, ogni molecola si rivelarono e continuano a rivelarsi esteriormente e interiormente mediante la nostra visione, fuori e dentro i nostri occhi: una «luce pura» che «informa la materia. Quanto più essa la compenetra, tanto più la materia diventa luminosa e dilatabile, tanto più tutti i corpi si fanno più fini, leggeri, esili, semplici, splendenti; quanto più, invece, la materia si oppone alla luce, tanto più diminuisce la capacità di diffusione e di movimento della luce; i corpi diventano allora più opachi, densi, oscuri, pesanti, definiti e compatti», questo secondo il pensiero del filosofo belga Edgard De Bruyne10 presente nei suoi Études d’esthétique mediévale11.
Concettualmente, in tal senso si può senz’altro affermare che fu proprio l’occhio di Dio, o se si vuole dell’Essere primo, ad aver pensato in atto e costruito in potenza quel primo e astratto e molecolare cono di Luce: un raggio luminoso che, espandendo e proiettando in potenza l’immagine primordiale della creazione sull’intero universo e all’interno del nostro sguardo e dei nostri occhi, essi stessi luce, ci rivela la vera essenza dell’immagine, al di là del luogo originario: ineffabile e incorporeo. Ed è proprio partendo dallo stesso atto e da un’idea astratta (ossia pensiero di pensiero) che la realtà esterna si manifesta splendente, cercando così di estrarre dal quel gesto luminoso una realtà e il suo stesso processo diveniente; una realtà in divenire; una realtà in potenza che generando a sua volta atto possa creare un’altra visibile e inattesa immagine incorruttibile ed eterna, scandagliando e indagando l’invisibile. Ed è qui che l’esperienza attiva della Luce, partecipando al mutamento della vita, e svuotando la dogmatizzata oggettività, ne ribalta i piani secondo la sua stessa apparizione; apparizione che smaterializzata e dissolta dalla sua stessa azione si fa generatrice di nuovi mutamenti-movimenti (kìnesis): sinoli appunto: acquisizioni di nuove forme e inattese sostanze; intimi universi simili a folli e incantate stringhe pulviscolari, estensioni di un mondo metafisico che, varcando l’idea di un vuoto cosmico incontenibile, incomprensibile, libera e proietta in atto, attraverso il suo stesso linguaggio e il suo stesso lirico apparire in potenza, la parte visibile della vita riflessa, quel luogo invisibile e indimostrabile, arcana presenza iperuranica e incorruttibile.
All’entità luminosa fin dai tempi antichi le furono addebitate segni speciali di carattere divino: proprio per questo motivo le antiche religioni orientali venerarono nel Sole l’anima, l’energia vitale della Luce. Successivamente, in Occidente sarà prima Parmenide12 e in seguito Platone13 e Aristotele14 a fondare il linguaggio del sapere sulla Luce stessa, per proseguire in epoca medievale a considerare la Luce non solo la forma prima di tutte le cose ma l’entità generatrice dello spazio e delle tre dimensioni: estendendosi e dilatandosi con amore all’infinito15. Sublimando il sapere greco e arabo, il Medioevo cristiano principiò, attraverso una lucida indagine scientifico matematica, a verificare sperimentalmente le varie possibilità fisiche della natura, ovvero dei fenomeni naturali un tempo interpretati solo dalla filosofia16. In seguito, il tema della Luce venne affrontato da celebri esponenti del pensiero scientifico europeo: Galileo Galilei17 in primis con il suo importante sostegno scientifico alla teoria eliocentrica copernicana18, in contrasto con la cosmologia geocentrica tolemaica; René Descartes19 (Cartesio), nella sua opera Il mondo (Traité du Monde o Traité de Lumiere: 1630-1633; pubblicato postumo nel 1664) ovvero trattato sulla Luce e l’uomo, concepì il mondo naturale come un immenso congegno nel quale il Tutto può essere chiarito scientificamente, quindi meccanicamente e fisicamente, abbandonando la precedente idea della trascendentalità delle azioni, sostituendo all’universo principiato dal pensiero scolastico e aristotelico un universo differente. A seguire con le celebri pagine newtoniane dell’Opticks20 nelle quali lo scienziato inglese esplorò e diede una innovativa lettura sul fenomeno naturale della Luce; oltre alla doppia teoria nella quale i raggi di Luce si manifestano per mezzo di corpuscoli o di oscillazioni, quest’ultime teorizzate dal fisico Christiaan Huygens nel Traité de la lumière21.
Nell’Ottocento la teoria maxwelliana sull’elettromagnetismo (James C. Maxwell)22 diverrà l’origine per le successive, nuove e importanti teorie conclusive; agli inizi del XX secolo quest’ultima teoria diventerà il perno per le due teorie che mostrarono la fine e la trasfigurazione della fisica classica e l’inizio di quella moderna proposta da Max Planck23 con la formulazione della teoria meccanicistica della Luce e della materia (meccanica quantistica)24 e quella sulla relatività25 formulata dal fisico tedesco Albert Einstein26: speculazioni nate in un periodo storico che, abbagliato da una visione nichilista del mondo, trascinò e travolse al suo passaggio l’intero regno della verità, della solidità, della totalità sino ad allora intese. Fermandoci ai legittimi dubbi scientifici di Einstein, il quale non credette in un’azione bizzarra, oscura ed enigmatica della natura, può rivelarsi estremamente affascinante ripensare a uno dei principali e fondamentali periodi dell’avventura scientifica moderna nell’Europa medievale e cristiana nel XIII secolo. In tal periodo fu proprio il filosofo medievale inglese Robert Grosseteste27 nella sua Metafisica della luce – condensando la dottrina aristotelica dell’intelletto agente (ossia che la Luce rende attraverso l’atto potenzialmente visibili i colori, i quali esistono già in potenza) e quella dottrina gnoseologica agostiniana dell’illuminazione (ovverosia: ogni uomo riceve la verità, la Luce della conoscenza, solo da Dio) – a ritenere «[…] che la prima forma corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce»28: pertanto, suscitando nei corpi le differenti energie sensibili, i colori, essa diviene la fonte delle strutture singolari, e a volte straordinarie; Luce come origine e senso tangibile dello spazio; «Per ciò che riguarda l’universo corporeo, la fisica di Robert Grosseteste è sostanzialmente una teoria della luce. […], Robert ammette che tutti i corpi hanno una forma comune, la quale si unisce alla materia prima, avanti che sopravvengano ad essa le forme particolari dei vari elementi. Questa forma prima o corporeità è la luce.»; inoltre, «La luce, egli dice, si diffonde da sé in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso viene immediatamente generata una sfera di luce grande quanto si vuole, a meno che non vi faccia ostacolo qualche corpo opaco. Dall’altro lato, la corporeità è ciò che ha per conseguenza necessaria l’estensione della materia nelle tre dimensioni». Robert Grossateste identifica la diffusione istantanea della Luce nelle tre dimensioni con la tridimensionalità dello spazio, e quindi la Luce con lo spazio. Attraverso il processo di estensione, di aggregazione e di disgregazione determinato dalla Luce si formano le tredici sfere del mondo cioè le nove sfere celesti e le quattro sfere terrestri del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra. La Luce spiega, secondo Robert, tutti i fenomeni della natura. Essa è lo strumento mediante il quale l’anima agisce sul corpo ed è la causa della bellezza del mondo visibile29, generando amore fra gli esseri umani, unendo così le distanze. Tramite le parole del pittore Claudio Olivieri30 in La continua alterità cercherò di definire cosa sia lo spazio nella realtà originato dalla luce, nella vita e nell’arte: «Cos’è, a questo punto, lo spazio? Non certo la prospettiva né l’illusione spaziale genericamente intesa, né una particolare dislocazione o la profondità, ma qualcosa che non si separa dall’esperienza stessa del fare e del vedere. È qualcosa che non si dà soltanto in una data struttura, ma che permane nell’opera e insieme nel modo in cui essa si pone per essere vista e vissuta, nel suo rimanere come estensione della coscienza». Spazio quindi come estensione della coscienza del proprio mondo interiore; dunque un processo spirituale e luminoso. Non solo il soffio «spiritus» che anima il mondo riducendolo a semplice fenomeno visivo, ma anche energia interna che esso emana: ossia intrinseca mediazione del vedere per mezzo della Luce attraverso lo spirito. Mediazione che trasformando i propri momenti sensuali – cioè il contenuto dell’esperienza dell’esistenza mortalmente sensibile – in veicoli di uno spirito in altro diventa obiettiva fonte luminosa, come afferma il filosofo tedesco Theodor W. Adorno nella sua Teoria estetica31.
Le immagini divengono per gli esseri umani concettualmente e liricamente decontestualizzate dalla loro già illusoria oggettività; ed è qui che tale realtà corporale e sanguigna viene – attraverso il potente flusso luminoso della Luce – spiritualizzata, svaporata e trasformata in altro: in una nuova forma, in un nuovo concetto. È proprio nell’atto privato del vedere che i vari frammenti della realtà, quasi irriconoscibili, e immersi nel più estasiante fulgore, si espandono in un vortice improvviso verso l’osservatore, attraversandolo nel centro focale della sua visione binoculare. Frammenti che grazie alla Luce, trasformandosi in spazio, divengono pensiero e amore, colore e forma: momenti sublimi diffusi nel punto focale del cuore; fluenti flussi di energie che, circondando e avvolgendo ogni datità sensibile, attraverso «l’occhio che è esso stesso luce» 32 – secondo la definizione di Goethe33, nella sua Zur Farbenlehre, ossia Teoria dei colori34 – diventano per l’osservatore un’esperienza folgorante, spirituale oltreché mentale e fisica. La Luce assegnando un volto all’immagine diviene energia visibile: un fulmineo bagliore, una caleidoscopica visione oltre la realtà, un miracolo inatteso di forme e colori: «Ma è proprio la luce che prende possesso del nostro vedere, riscatta ciò che sembrerebbe contraddittorio, non si sofferma sui corpi ma sembra attraversarli in un susseguirsi di apparizioni senza sosta. Non si tratta di un contrasto tra luci e ombre ma delle due cose insieme, l’una generatrice dell’altra. In questo sta il dominio del colore che non modella la forma ma la costituisce per saturazione, non conferisce una gravità ma ne fa il luogo di un evento. Le raffigurazioni paiono dimentiche delle proporzioni e sembrano inseguire lo spazio invece di esserne circoscritte. Tutto sembra permeato da questo continuo cromatico, come percorso da un bagliore» (Lux – La Luce) «che investe il vicino e il lontano»35.
Una Luce, inoltre, che, secondo il filosofo Henry Corbin36, sfuggendo al sistema logico del piano diviene la visione di una pluridimensionalità trascendentale e psicologica. Visione che in-forma diveniente si apre alla storia, all’evento, al luogo magico, allo spirito; di fronte a tali manifestazioni l’uomo-osservatore, chiamato ad assistere alla creazione di tali visioni, riscoprirà mirabili paesaggi, rivedrà e di nuovo assisterà, in fondo al più intimo confine della propria psiche e della propria anima, l’immagine luminosa della prima creazione, il suo archetipo, l’amore di Dio: questo perché ogni uomo ha e avrà sempre lo sguardo del primo volto creatore. Tracciando un potente solco luminoso sulla pelle di ogni realtà la Luce illumina costantemente ogni frammento del vuoto che sempre ci circonda; una lux che ha il potere di farci sprofondare nei meandri di se stessa; una Luce che attraendoci ci ipnotizza; un’immagine del pensiero che attraverso la dissolvenza quasi apparente della forma diviene incorporea fonte di evidentissima chiarezza: è qui che l’estetica bonaventuriana37 ci può venire in aiuto facilitandoci a comprendere il valore della Luce: «[…] la luce è la causa prima del mondo materiale»38. Naturalmente il contenuto di verità nel mondo – cioè questo al di là da ciò che si manifesta – si mostra nel momento in cui l’osservatore dimentica se stesso, tralasciando le proprie angosce, inquietudini, timori e affanni della quotidiana vita; attraverso questa esperienza si può incontrare “La via spirituale”, solo alla vista dell’immagine e del momento Sublime: ossia «ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire»39, secondo la definizione del filosofo, politico e maîtres-à-penser irlandese Edmund Burke40.
Di conseguenza, spero che l’azione liberatoria della Luce, come catarsi, svincolata in atto dai vari aspetti del dogma e indipendentemente dalle varie forme teologiche o scientifiche, ma parallele in potenza ad esse, per interesse o coinvolgimento religioso, culturale e ideologico, divenendo espressione – trascendendo e raggiungendo i territori dell’elevazione filosofica e ascetica – di nuove ed inattese forme e immagini, sia il ponte di unione fra all’Esser-ci e l’Essere oltre la soglia dell’invisibile: tale da opporsi alla cieca e a volte opaca estensione corporale della vita, oltre alla stessa realtà circondanteci: una Luce ri-costruente il frammento, il vero volto invisibile della realtà, ri-velandoci, al di là del mondo cartesiano, la sua vera e pura Essenza: quella energia spirituale, potente e primordiale che alle volte smarriamo dentro di noi; quell’Energia luminosa, anima del mondo, forma spirituale estensione del Pensiero e dell’Amore, quello vero palesato e manifesto fra gli esseri umani: di conseguenza «Più Luce!»41.
NOTE
- Àgape o agàpe, dal greco ἀγάπη, agápē, in latino caritas. Attualmente questo termine viene utilizzato in ambito teologico cristiano per dimostrare l’amore di Dio nei confronti dell’intera umanità: Àgape è l’amore discendente, mentre eros è l’amore ascendente.
- , BARUCH SPINOZA, Etica, Parte prima, Scolio prop. XXIX; Etica e Trattato teologico-politico, UTET, Torino, 1988, pagg. 112-113.
- La più antica testimonianza letteraria e della civiltà indiana.
- GIANFRANCO RAVASI (Card.), La luce, archetipo simbolico universale, in La luce, un simbolo religioso tra immanenza e trascendenza, articolo pubblicato in occasione della cerimonia d’apertura, Anno Internazionale della Luce, UNESCO 19 gennaio 2015 (sito web: www.cultura.va).
- In filosofia, la peculiarità di essere e di esistere al di là di un’altra realtà.
- In filosofia, l’opposto di trascendenza: ossia ciò che si definisce o persiste dentro un campo stabilito, percepibile e sensoriale.
- ARISTOTELE, De caelo, libro I, capp. 1-12.
- GIACINTO GIMMA, op. cit., in De’ Fuochi sotterranei, e de’ Tremuoti, in Della storia naturale delle Gemme, delle Pietre, e di tutti i minerali, ovvero della Fisica sotterranea, Volume II, Cap. VI, Art. XV., Napoli 1730 (pubblicato nella stamperia di Gennaro Muzio), p. 479.
- , ARISTOTELE, op. cit., Metafisica, 1071b, Rusconi, Milano, 1994 2 , pp. 557-559 e p. 567).
- Edgard De Bruyne, filosofo e politico (1898-1959); pubblicò nel 1946 il saggio Études d’esthétique mediévale.
- , HANS SEDLMAYR, op. cit., in Metafisica, mistica ed estetica della luce: sindromi luminose (paradigmatico) IV §, in La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2009, p. 43.
- Parmenide nacque in Magna Grecia ad Elea, chiamata Velia dai romani. Il filosofo sarebbe nato intorno al 540/39 a.C.), ma della sua vita si hanno insufficienti informazioni; egli, fondatore dell’eleatismo, definisce la luce conoscenza. L’unica opera di Parmenide è il poema in esametri intitolato Sulla natura, pervenutoci in diciannove frammenti. Il suo pensiero si basa sulla profonda differenza tra il mondo sensibile e mutevole e il mondo intelligibile, oggetto della ragione.
- Platone, filosofo greco antico nacque e morì ad Atene (428-347). A mostrare inizialmente la luce in una veste metafisica, come sostanza divina, incorporea e intelligibile, era stato proprio Platone, che paragonava la luce al Bene, e il bene al sole (Repubblica 508b-509b).
- Aristotele, filosofo e scienziato greco antico (384/383-322); per Aristotele “La luce è l’atto di questo e cioè del diafano in quanto diafano. Dove il diafano non è se non in potenza ci sono le tenebre.” (Op. cit., ARISTOTELE, Dell’anima, II, 7, 418b9-11.).
- ROBERT GROSSETESTE, Metafisica della luce, a cura di Pietro Rossi, Milano, Rusconi, 1986.
- CROMBIE CAMERON ALISTAIR, Da S. Agostino a Galileo: storia della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli 1970, pag. 302.
- Gallileo Gallilei (1564-1642) nel 1612 rivisitò la teoria copernicana del 1543.
- Niccolò Copernico (1473-1543) nella sua importantissima opera scientifica De Revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti) propose la corretta visione del sistema solare; l’astronomo polacco riprese vari studi greci, tra i quali quelli di Aristarco di Samo.
- René Descartes (Cartesio, 1596-1650), filosofo e matematico francese.
- Opticks, or, a Treatise of the Reflections, Refractions, Inflections and Colours of Light è un trattato sulla natura della luce scritto da Isaac Newton tra il 1642 e il 1727, e pubblicato nel 1704 in lingua inglese e nel 1706 in latino.
- Huygens Christiaan (1629-1695), matematico, astronomo e fisico olandese; pubblicò il Traité de la lumière nel 1690.
- James C. Maxwell (1831-1879), fisico e matematico scozzese.
- Max Planck (1858-1947), fisico e matematico tedesco.
- Teoria fisica che per mezzo di probabilità statistiche delinea l’azione comportamentale dei sistemi di dimensioni atomiche o subatomiche (elettroni, nuclei, atomi, molecole ecc.); in questo caso la teoria esclude per le verifiche le leggi della meccanica classica e dell’elettromagnetismo (http://www.treccani.it/enciclopedia/quanto/).
- Per la teoria della relatività ristretta e generale fai riferimento al sito web (http://www.treccani.it/enciclopedia/relativita/)
- Albert Einstein (1879-1955), fisico e filosofo tedesco.
- Robert Grosseteste o Roberto Grossatesta (1175-1253), teologo, scienziato e statista inglese.
- , ROBERT GROSSETESTE, Metafisica della luce, a cura di Pietro Rossi, Milano, Rusconi, 1986.
- , NICOLA ABBAGNANO, op. cit., Roberto Grossatesta: la fisica, in La polemica contro l’aristotelismo, Capitolo XII, in La filosofia scolastica, parte terza, in Storia della filosofia: la filosofia antica, la Patristica e la Scolastica, Torino, UTET, 2007, p. 533).
- Claudio Olivieri (Roma, 1934 – Milano, 2019) è stato un pittore e scultore italiano, illustre esponente del movimento della Pittura Analitica.
- THEODOR W. ADORNO, in L’arte come qualcosa di spirituale, in Il bello artistico: “apparition”, spiritualizzazione, in evidenza, in Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Piccola Biblioteca Einaudi (Filosofia), Torino, 2009, p. 117.
- «Potremmo guardare la luce, / l’occhio non fosse parente del sole? / potremmo essere mossi dalle cose divine, / se la forza di Dio non vivesse in noi?» (J. W. GOETHE, Opere, V, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze, Sansoni, 1962, p. 299).
- Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), scrittore, poeta e drammaturgo tedesco.
- Saggio scritto da Goethe nel 1810; in disaccordo con la teoria di Newton, afferma che non è la luce ad apparire, a manifestarsi dai colori, piuttosto l’opposto.
- CLAUDIO OLIVIERI, op. cit., in La luce, il colore, In: Genio italiano, Smisurato Tintoretto, in: FMR spa/Gruppo FMR-ART’E’ (Rivista bimestrale e cultura visiva), nuova serie, n. 23, gennaio-febbraio 2008, Villanova di Castenaso (Bologna), p. 29.
- Henry Corbin (1903-1978), filosofo, iranista e traduttore francese.
- “La luce non è un corpo, ma è la forma di tutti i corpi. […] La luce è la forma sostanziale di ogni corpo naturale. […] Essa è il principio della formazione generale dei corpi stessi” (NICOLA ABBAGNANO, op. cit., La fisica della luce, in Bonaventura, Capitolo XIII, in La filosofia scolastica, parte terza, in Storia della filosofia: la filosofia antica, la Patristica e la Scolastica, Torino, UTET, 2007, p. 544).
- HANS SEDLMAYR, op. cit., in Metafisica, mistica ed estetica della luce: sindromi luminose (paradigmatico) IV §, in La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2009, p. 44.
- EDMUND BURKE, op. cit., in Il sublime (§ VII), in Parte prima, in Inchiesta sul Bello e il Sublime (I e II edizione 1757 – 1759), a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2006 (nona edizione), p. 71.
- Edmund Burke (1729-1797), politico e filosofo irlandese.
- Riporto qui le parole finali urlate e pronunciate, forse, dallo stesso Goethe nel suo Faust, poema drammatico pubblicato nel 1808 “Mehr Licht!: ovvero Più Luce!”.
Foto: Idee&Azione
15 aprile 2023