Idee&Azione

La Rivoluzione conservatrice d’Iran: gli esempi di Jâlal AL-e Ahmad, d’Ali Shariati et d’Ahmad Fardid

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di Maxence Smaniotto

Une Rivoluzione conservatrice iraniana?

Pochi lo sanno, ma alcuni tra gl’ispiratori della rivoluzione di Khomeini del 1979 furono in parte influenzati da alcuni autori che gravitavano nell’ambito della cosiddetta “Rivoluzione conservatrice tedesca”, termine coniato da Armin Mohler nel suo celebre saggio del 1950 Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1931. Jâlal AL-e Ahmed aveva letto (e tradotto in condizioni rocambolesche) Il passaggio della linea di Ernst Jünger, mentre Ahmad Fardid e Ali Shariati furono profondamente influenzati dal pensiero di Martin Heidegger. Tutti e tre avevano letto Oswald Spengler, e Ali Shariati lo citava in diversi suoi scritti.  

Gli autori di riferimento di Jâlal AL-e Ahmad e Ali Shariati erano Karl Marx e Frantz Fanon, in quanto l’obiettivo principale era per loro di trovare le ispirazioni adatte per una liberazione anticapitalista dall’influenza occidentale, USA in testa, considerati a tutti gli effetti come delle potenze colonizzatrici. Sarebbe di conseguenza eccessivo pretendere di stabilire un legame diretto e necessario tra la rivoluzione conservatrice tedesca e quella iraniana – la seconda non può essere considerata una copia della prima.  Ma resta il fatto che questi due grandi eventi della storia del XX secolo hanno dei punti in comune. I rispettivi pensatori stavano affrontando questioni simili, anche se in contesti molto diversi, la Germania nata dal Trattato di Weimar, borghese e repubblicana, nel primo caso, e l’Iran imperiale ma praticamente sotto protettorato anglo-russo prima e statunitense poi, nel secondo.

Possiamo tuttavia citare quattro temi comuni. In primo luogo, la tradizione nella sua dimensione comunitaria e trascendentale. In secondo luogo, il socialismo rivoluzionario come strumento di lotta contro il capitalismo. In seguito, l’anticolonialismo come mezzo di liberazione nazionale (in particolare nel caso di Ernst Niekisch e Karl Otto Paetel in Germania) e infine la critica dell’Occidente. Questi quattro punti sono intrecciati tra loro, per cui se ne manca uno, l’intera struttura ideologica crolla su sé stessa. In Germania, è l’elemento socialista e prussiano a essere enfatizzato, mentre in Iran è piuttosto l’elemento religioso, ma inteso come necessario complemento all’anticapitalismo. Pertanto, alcuni pensatori iraniani ritenevano che fosse necessario trovare un modo per collegare l’Islam, il socialismo rivoluzionario, l’anticolonialismo e la modernità. La miscela sarà esplosiva.

Possiamo quindi parlare, nel caso dell’Iran, di una rivoluzione conservatrice tedesca che avrebbe avuto successo? Una “Rivoluzione conservatrice iraniana”? La questione è complessa, ragione per cui non è saggio dare una risposta univoca.

Se da un lato è chiaro che la rivoluzione del 1979 ha prodotto un regime teocratico, dall’altro sarebbe sbagliato affermare che essa non contenesse elementi rivoluzionari o addirittura socialisti. Islam e rivoluzione non sono affatto incompatibili. Al contrario, molti pensatori musulmani sottolineano come l’Islam fosse, alle sue origini, profondamente rivoluzionario, anche nel suo aspetto economico. Possiamo in definitiva affermare che una “Rivoluzione conservatrice iraniana” (1) ha effettivamente avuto luogo, ma che essa non fu ispirata direttamente dalla Rivoluzione conservatrice tedesca. Per esempio, pur essendo rivoluzionaria, la nuova teocrazia iraniana non era particolarmente socialista, anche se presentava elementi di antiliberismo, interventismo statale, divieto dell’usura e nazionalizzazione delle imprese straniere, in particolare quelle dell’industria petrolifera. Inoltre l’aspetto antiborghese venne rapidamente messo da parte, e l’Iran odierno possiede una classe borghese attiva e dinamica, in parte, almeno per quel che concerne la frangia che guarda all’Occidente come a un modello, opposta al regime degli Ayatollah.

Chi sono dunque i pensatori che hanno ispirato la rivoluzione di Khomeini? Ne abbiamo selezionati tre, probabilmente i più rappresentativi.

Jâlal AL-e Ahmad: l’ “occidentalite” come malattia

La vita di Jâlal AL-e Ahmad è stata come la sua scrittura: abbondante, ricca, radicale e sfrontata. Nato in una famiglia molto religiosa, questo anziano comunista passato al nazionalismo del primo ministro Mohamad Mossadegh, che la CIA fece rimuovere nel 1953 per punirlo della sua volontà di nazionalizzare il petrolio iraniano, visse e studiò all’estero per anni prima di riscoprire la fede e tentare una sintesi tra islam, socialismo rivoluzionario e progressismo. La sua opera è un’immensa ricerca: trovare le cause dell’infelicità umana e scovare il modo di sradicarla. Per questo pensatore iraniano, l’infelicità ha un nome, Ghazarbzadegui, un neologismo traducibile con “occidentalite”. Essa designa l’occidentalizzazione delle popolazioni indigene come una malattia, con i suoi sintomi e prognosi.

Il problema, per AL-e Ahmed, non è tanto l’Occidente in sé, quanto piuttosto la sua imitazione: “[…] prendiamo le donne secondo la moda dell’Occidente, come loro, imitiamo la libertà, diciamo il bene e il male, indossiamo l’abito o teniamo la stilografica – e in verità ce lo devono dire giorno e notte. Come se i nostri valori fossero superati. Ridotti a un’appendice del loro ventre, ne andiamo pure orgogliosi.” (p. 50).

Secondo il pensatore iraniano, questo stato di cose può essere spiegato da una serie di fattori. In primo luogo, lo sviluppo tecnologico dell’Occidente, che gli ha conferito la supremazia militare ed economica sulle altre civiltà. In secondo luogo, l’attrazione degli iraniani per l’Occidente. Paese arido, l’Iran ha sempre guardato con invidia alle fertili terre dell’Europa e del Vicino Oriente. Jâlal AL-e Ahmad sottolinea qui uno dei temi ricorrenti e ancora molto presenti tra i popoli del Medio Oriente: il rapporto sovente ambiguo, addirittura schizofrenico, con l’Occidente, fatto di paura, gelosia, disprezzo e ammirazione. Sentimenti forti e contraddittori che già il grande poeta e mistico iraniano Sohrawardi aveva evocato in alcuni suoi scritti, descrivendo l’Occidente come una “prigione” e un “pozzo”, designando così il luogo della perdizione e della caduta, da cui è possibile uscire solo attraverso un processo di ritorno a Oriente; metafisicamente, un ritorno alle fonti della Tradizione.

In un certo senso, questo è ciò che Jâlal AL-e Ahmad sostiene per “curare” l’occidentalismo. Ritorno ai valori fondamentali dell’Islam (sosteneva il sunnismo anziché lo sciismo, che vedeva come un artificio imposto dalla dinastia safavide per consolidare il proprio potere nel XVI secolo), non in una logica reazionaria e retrograda, di cui si faceva beffe, ma piuttosto in senso spirituale e vitalista, anticapitalista, critico nei confronti della tecnologia e dell’alienazione che essa provoca. Quindi, lotta per il popolo, decolonizzazione, nazionalizzazione, autosufficienza. Le potenze occidentali depredano l’Iran delle sue risorse energetiche e gli impongono i loro prodotti di consumo, da qui l’ossessione di cambiare la mentalità locale per renderla simile a quella dell’Europa e degli Stati Uniti: “Sesso, stupidità, esche, assurdità. Intanto il petrolio viene messo nei barili” (p. 50).

Grande lettore di Georges Bernanos et di Martin Heidegger, è quindi inevitabile che egli sviluppi una critica della macchina e della modernità, i principali prodotti dell’Occidente: “Se è vero che l’ascesa brutale della meccanizzazione in tutti i campi è sempre fonte di crisi sociali, per noi che siamo all’inizio del cammino, costretti a fare un salto di duecento anni, siamo in un pasticcio di cui non abbiamo idea. E, più che in altri Paesi soggetti allo stesso destino, queste febbri produrranno delusioni persistenti e allarmanti”. (p. 143). Ma come affrontare l’irruzione delle macchine nell’Iran dei primi anni Sessanta? Se i valori della modernità devono essere rifiutati in quanto estranei al logos iraniano, è necessario tenere conto della necessità, insiste AL-e Ahmed, di dominare la macchina: “Perché è un mezzo e non un fine. L’obiettivo è sbarazzarsi della miseria e rendere disponibile a tutti il benessere materiale e morale” (p. 96), evitando così due trappole.

La prima è quella della sottomissione, che porta l’uomo a diventare un semplice agente di consumo dipendente dalle tecnologie, e più precisamente dalle tecnologie occidentali. E, in secondo luogo, la trappola della reazione, del distacco monastico, del ritorno illusorio al passato, un comportamento che impedisce di impegnarsi a cambiare qualcosa. Poiché la macchina si è imposta, è necessario poterla dominare senza rinnegare, come vorrebbero i capitalisti, i valori religiosi, che sono fondamentali perché aiutano a evitare che l’individuo si trasformi in un mero consumatore alienato. Infatti, “è così che si governa un popolo, consegnato alla fatalità della macchina, sotto la bandiera di un’élite occidentalizzata, e per mezzo di seminari, conferenze, secondi e terzi piani, e per mezzo di aiuti gratuiti e investimenti irrisori in un’industrializzazione senza radici e dipendente”. (p. 108)

In controtendenza rispetto alla maggior parte dei pensatori dell’epoca, Jâlal AL-e Ahmad criticò le riforme moderniste e laiche di Egitto, Turchia e Iraq, identificando in esse i sintomi dell’occidentalite. Nel 1962 pubblicò a proprie spese il suo pamphlet più famoso, L’occidentalite. Vietato dalle autorità imperiali, circolò sotto al mantello, riscontrando un successo immenso. Djâlal AL-e Ahmad rimase fino alla fine della sua vita, nel 1969, un convinto sostenitore della completa nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana, della decolonizzazione delle menti e del ritorno a una dimensione spirituale dell’uomo e della sua comunità d’appartenenza.

Ali Shariati: auto-edificazione e ritorno a sé

Ali Shariati (1933-1977) ha ripreso e ampliato alcune tesi di Jâlal AL-e Ahmad, che conosceva personalmente, e più precisamente quelle dell’occidentalite. Eccellente studente, dotato di un innegabile carisma e di un’incomparabile capacità oratoria, Shariati si impegnò in politica fin da giovanissimo, il che gli causò infiniti problemi con le autorità iraniane.

Ciò non gli impedì di ottenere una borsa di studio alla Sorbona nel 1959. Studente di Louis Massignon, conobbe l’ambiente intellettuale e politico francese: Jean-Paul Sartre, i militanti del FLN, Frantz Fanon, di cui fu il primo traduttore in farsi. Dopo aver conseguito il dottorato in letteratura, tornò in Iran, dove venne arrestato al suo arrivo all’aeroporto, nel 1964. Perse più volte il lavoro, i suoi scritti vennero proibiti, fu monitorato, arrestato e torturato.

Shariati divenne estremamente famoso. I suoi discorsi alla moschea attiravano grandi folle. Intellettuali e mullah si recavano a casa sua per scambiare idee. Tra questi, Ali Khamenei, la futura Guida Suprema dell’Iran…

Shariati abbandonò l’Iran nel 1977 per l’Inghilterra, dove venne assassinato dal SAVAK, il servizio di sicurezza interno iraniano.

A differenza della maggior parte dei pensatori rivoluzionari iraniani, diverse opere di Shariati sono state tradotte e pubblicate in francese e inglese, tra cui le fondamentali Costruire l’identità rivoluzionaria e Ritorno a sé. Shariati vi espone in modo sintetico il suo pensiero politico e la sua visione dell’Islam con un linguaggio chiaro e diretto. La sua preoccupazione costante è quella di integrare efficacemente religione, socialismo e azione politica in modo da adattarli al contesto iraniano dell’epoca.  

Osservando che ogni rivoluzione contiene la sua parte di profittatori e ipocriti che prima o poi la distorcono, snaturandola, Shariati auspicava un processo che ha definito di “auto-edificazione”, un processo che comporterebbe necessariamente un “ritorno a sé”. Poiché l’Iran è, secondo l’intellettuale iraniano, una colonia occidentale, tutti devono rendersi conto di trovarsi in una posizione di dominio straniero che impone materialismo, sfruttamento, logica capitalista ed egemonia culturale. Il ritorno a sé è di conseguenza un processo necessario di riappropriazione dell’identità, in cui ognuno deve recuperare ciò che il sistema capitalista gli ha tolto. Questa riappropriazione deve essere individuale e anche collettiva. Il Corano e gli esempi di Maometto e Hussein sono fonti inesauribili di ispirazione e di insegnamenti, insiste Shariati, il più importante dei quali è: “Ognuno di noi è responsabile ed è il coltivatore del proprio seme: ‘L’uomo che purifica la sua anima sarà salvato’ (Sura 91, Il Sole, versetto 9) […] Una simile spiegazione dell’essere umano può spingere il pensatore che appartiene alla borghesia o all’aristocrazia, o alle classi più laboriose, a strapparsi di dosso l’abito di classe e a ribellarsi, a dispetto della classe a cui appartiene e a unirsi e persino a dirigere la marcia della classe opposta alla sua, cioè quella dei bisognosi e degli oppressi.” (p. 24)

La rivoluzione è il risultato di una lotta di liberazione nazionale per conto del popolo, ma anche di una lotta di liberazione mentale e civile. Questa lotta è inseparabile dalla fede in Dio: “Come potrebbe [l’uomo] pensare al culto di Dio, o al culto dell’ideale, finché il sistema in cui si vive è un sistema dominato dai conflitti di denaro, in cui si corre al consumo, dominato dalla borghesia e dal capitalismo, dalla proprietà privata e dallo sfruttamento di classe?” Questo sistema di sfruttamento, continua Shariati, si basa sulla democrazia liberale e sulla sua classe rappresentativa, la borghesia. La costruzione dell’identità rivoluzionaria consiste allora non solo nel respingere ciò che ci minaccia, ma anche nel costruire un uomo nuovo, che si sia ricollegato alle sue fonti, un uomo socialista che si sia liberato della sua zavorra materialista: “[…] l’uomo socialista è prima di tutto un uomo divino; è un’essenza pura ed elevata, un uomo che ha raggiunto il grado di altruismo, che ha un orientamento ideologico in accordo con la sua visione complessiva della vita.” (p. 36)

   L’autocostruzione si basa in definitiva su tre pilastri: il culto, che riassume l’intera dimensione divina (“Per culto intendiamo la connessione esistenziale permanente tra l’uomo e Dio, il Dio che è la fonte dell’anima, della bellezza, della meta da raggiungere, della fede e di tutti i nostri valori umani […]” p. 40); il lavoro come dimensione interiore e comune, che consente il passaggio all’azione; e infine la lotta sociale, intesa come lotta contro le ingiustizie del sistema capitalistico occidentale nell’interesse del popolo.

Shariati criticava costantemente gl’intellettuali progressisti che avevano abbracciato le ideologie occidentali, che accusava di essere ipocriti che in realtà odiavano le masse, così come i clericali conservatori, che accusava di legittimare il potere attuale e quindi di perpetuare le strutture dell’oppressione capitalista, e anche i reazionari, nei quali vedeva dei controrivoluzionari che pretendevano di tornare a un passato fantastico e idealizzato. Al contrario, Shariati aveva questa rara capacità di essere trasversale, di toccare un pubblico molto eterogeneo che spaziava dai diseredati agli operai, dai militanti socialisti ai religiosi, dagli intellettuali borghesi ai funzionari pubblici che beneficiavano degli effetti materialistici del regime. Una qualità rara, dunque, che lo rese uno dei più temuti nemici del regime, il quale finì per assassinarlo.

Ahmad Fardid: gli “heideggeriani islamici”

La modernizzazione forzata dell’Iran, avviata nel 1954 con la “rivoluzione bianca” voluta dallo scià Reza Pahlavi, ebbe l’effetto diretto di disarticolare le strutture sociali delle comunità tradizionali dell’impero, favorendo soprattutto la borghesia e i proprietari terrieri. Mal controllati, il modernismo e il tecnicismo si sono rivelati devastanti per le società tradizionali, producendo sradicamento (l’esodo rurale ha creato enormi baraccopoli alla periferia delle metropoli), alienazione, nevrosi, disuguaglianze sociali, urbanizzazione e distruzione ambientale.

Non sorprende quindi che tanti pensatori iraniani abbiano trovato in Martin Heidegger una fonte di ispirazione, considerando il suo pensiero adatto al contesto iraniano dell’epoca. Furono soprattutto le implicazioni metafisiche della tecnologia, che il filosofo tedesco non smise mai di analizzare e criticare, ad attirare l’attenzione degli “heideggeriani islamici”, noti anche come “heideggeriani di Teheran”. Praticamente sconosciuti in Occidente, le loro riflessioni sono state fondamentali per legittimare, spesso a posteriori, e ben inquadrare l’ideologia della nuova teocrazia, segnando una rottura di civiltà con la politica filoccidentale delle precedenti élite iraniane.

Ahmad Fardid, nato a Yazd, la città santa degli zoroastriani, nel 1910, sarà il filosofo più eminente e, in un certo senso, mediatico della nuova teocrazia. Questo filosofo, che, come Ludwig Wittgenstein e Jacques Lacan, scrisse pochissimo durante la sua vita, preferendo la trasmissione orale, è intrigante – ancora oggi, è oggetto di adorazione o di critiche acerbe per la sua condanna della Dichiarazione universale dei diritti umani e per la sua acquiescenza al regime degli ayatollah. Mahamoud Sadri, uno dei suoi ex allievi, sottolinea come Fardid “vivesse la filosofia”, ma evidenzia anche la sua miopia nei confronti della politica, tendendo a vedere alcuni politici come inviati del destino.

In ogni caso, Fardid è stato senza dubbio il filosofo più influente in Iran nella seconda metà del XX secolo. Poliglotta (parlava correntemente l’arabo, il francese e il tedesco), studiò in Iran, alla Sorbona e in Germania, diventando professore presso il Dipartimento di Filosofia di Teheran. A differenza di Jâlal AL-e Ahmad e Ali Shariati, visse a lungo (morì nel 1994) ed ebbe così il tempo di influenzare il regista Mortez Avini, considerato il più eminente videoartista iraniano emerso dalla rivoluzione, e il futuro presidente Mahamoud Ahmadinejad.

Fardid riprende gran parte dei temi affrontati da Heidegger per sviluppare una critica della modernità occidentale, importata e imposta all’Iran dalla sua élite, opponendovi come soluzione un ritorno all’Islam, inteso nella sua dimensione di ritorno al logos dell’Oriente in contrapposizione al logos razionalistico e tecnicistico occidentale, estraneo all’Iran. Ogni espressione della modernità occidentale viene criticata, dalla democrazia liberale al razionalismo, dai diritti umani al progressismo. Sebbene abbia cercato di riflettere su un’unione tra Occidente e Oriente basata su una metafisica comune, non ha avuto il tempo di completare quest’opera.

La sua tesi principale era che l’antropocentrismo e il razionalismo della Grecia classica, quella socratica, avevano sostituito l’autorità divina, allontanando l’uomo dal sacro e disarticolando così la sua essenza, il Dasein. Quindi, rifiutare le dinamiche interne dell’Occidente significherebbe ripristinare il Dasein.

Egli fu all’origine del termine “occidentalite”, reso successivamente popolare da Jâlal AL-e Ahmad.

Biografia dell’articolo:

  • Djâlal AL-e Ahmad, L’occidentalite, éditions L’Harmattan.
  • Ali Shariati, Construire l’identité révolutionnaire, éditions Albouraq
  • Mahmoud Sadri (testimonianza a proposito di Ahmad Fardid), https://iranian.com/MahmoudSadri/2004/June/Fardid/
  • Forse si dovrebbe chiamarla “Rivoluzione tradizionalista iraniana”, perché il clero conservatore dell’epoca era interamente dalla parte del regime dello Scià. Per molti rivoluzionari musulmani si trattò più di un tentativo di ritorno alle radici della tradizione islamica e ai suoi valori che di un conservatorismo come lo intendiamo nel contesto occidentale.

Foto: Idee&Azione

18 aprile 2023

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