di Jean Córdova
L’arte astratta è l’evidente parossismo al di là dello scenario reale della materia. Qui il limite del visibile e del tangibile, alterando il mondo sensibile, diviene l’incipit per un nuovo contenuto spirituale e per un nuovo soggetto. Lo specchio ricurvo, nel quale si riflette quel limite, è l’immagine che oltrepassa l’aspetto esteriore del reale.
È proprio in questo luogo, inizialmente apparente, illusorio, che – rovesciando le fenomeniche e mortali architetture della Natura – l’artista cerca di afferrare l’ignoto, l’inatteso, lo spazio vuoto che sempre lo circonda: ossia, una dimensione fuggevole, attraverso la costruzione di nuove forme, nuove linee, nuovi colori e nuovi spazi. Inedite distanze, permettenti, a volte, di rendere visibile allo sguardo la parte invisibile della vita riflessa: un luogo nel quale nulla è più comparabile alla realtà conosciuta; un luogo inconoscibile, nel quale l’essenza primaria – cioè l’origine del Tutto, quel Cháos dei primordi – è rivelata, trascendentalmente, oltre la soglia del visibile e del mondo cartesiano: un varco oltre al quale l’astrazione diviene irradiandosi all’infinito il senso atemporale in un mondo inquieto e tragico dalle sfumature paranoiche e kafkiane declinato su differenti strutture sincroniche e diacroniche.
Qui la sublimazione e la spiritualizzazione compiute dall’artista mediante i frammenti visibili costruenti l’immagine dell’opera, dilatandosi dall’invisibile al visibile e facendosi immanenti nella realtà, divengono così la reazione a tali limiti oltre i suoi stessi condizionamenti. Limiti come incipit, o meglio confini, permettenti l’atto creativo generante nuove ed eterne epifanie: traendo da esse la linfa vitale, l’azione primaria, l’artefice, contemplando tali e nuove inedite realtà in apparenza limitanti, diviene portatore – mediante tali nuove visioni – di incorporee e impercettibili dimensioni varcanti il mondo dell’inesplorato, oltre i suoi stessi confini.
Se dovessi fare un esempio concreto, oltre l’aspetto gnoseologico, o meglio filosofico-concettuale, sopra descritti, penserei certamente alla dimensione potente e spiazzante del vento. L’elemento naturale vento, in origine impercettibile e invisibile ai nostri occhi, diviene, oltre il limite di una calma e afosa giornata di Scirocco, l’attore principale e inaspettato: come l’impetuosa energia del Maestrale conquistatore di innumerevoli vuoti, infiniti spazi e immense distanze: potenza diveniente e mutante il precedente volto della contigua realtà. La linea oltre il limite reale, la parte ignota della Natura, l’essenza invisibile, diviene per l’artista l’immagine astratta dell’antecedente ritaglio di realtà; è qui che la mutabilità della Natura diviene reazione e quindi ‘astrazione’.
L’arte astratta è reazione al mondo sensibile che sempre ci circonda, una sferzata improvvisa che ridisegna le consuetudini della realtà umana. Certo non sempre questo avviene senza difficoltà, senza ostacoli, senza ‘errori’, i quali – fondamentali per l’artista – divengono le tracce integranti del pensiero e del lavoro. Quest’ultimi (gli errori), conseguiti dall’azione improvvisa del gesto, dell’atto, e scaturiti dal pensiero umano, diventano per l’artista un materiale non meno importante della stessa reazione. L’arte astratta non è quindi la perfetta forma del nuovo orizzonte, ma solo la reazione al limite della realtà che senza sosta ci accerchia e ci assedia. Essa è quindi l’errore che – come il vento – insinuandosi all’improvviso, vorticosamente, nei dedali della realtà muta il precedente aspetto del mondo reale: la sua forza coattiva.
L’arte astratta è l’inaspettato errore che spazza il luogo comune – tracciato e nuovo solco spirituale – oltre l’abitudine e la convenzione, oltre il tempo materiale, oltre la morte. È qui che l’artista o meglio il pensatore libero e puro – libero da schemi precostituiti, dogmatici e pragmatici, votati a difendere un onnivoro meccanismo sistemico globale desertificante – dona, come liberatore, al mondo umano e alla sua immensa e profonda psyché (anima), attraverso la sua arte, l’immagine più avulsa, spirituale e celata che la natura possegga.
L’epifania di un’astrazione: la Rupe di Lèucade
Se la luce avesse oltrepassato l’antico portale, mentre le linee dell’oscuro e liquido spazio di tenebra continuavano ad avanzare perdendosi all’infinito, là, tra la polvere e i ricordi, e le forti e improvvise folate di vento, che facevano roteare a spirale quell’esterno e tetro mondo davanti ai miei occhi, e a quella raccolta dimensione, sarei rimasto all’interno di quel sacro luogo protetto da quella stessa estensione luminosa, immerso nella sua aurea dorata, e da quella strana e inconsueta geometria senza peso. Ma dacché non fu così mi ritrovai solo sotto un plumbeo cielo, come un secco frammento di un cosmo, fuori dalla mia coscienza in piedi sul bordo stretto di un alto muro rastremato di grosse pietre, e osservando lo sterminato e tetro territorio e il cielo plutonio e illimitato che avevo di fronte, perturbato e scoraggiato dall’infelice destino di Ettore piansi la sorte umana e la miseria del mondo, similmente allo sguardo algente di Saffo, che dalla Rupe di Lèucade cercò di raggiungere il liquido vuoto e la sua diuturna ombra. Ero svuotato dal passaggio dall’essere alla fine di un essere, e per il tempo rapido di un respiro mi sentivo parte di un nulla, chiuso dentro lo strido imo del mio liquido cuore. Il destino di Ettore, hic et nunc, era nel mio tenero sguardo di fratello, di amico, di uomo, di essere senza terra; mentre la sola realtà afferrata era la perdita di relazione col mondo, un mondo assente per il suo costante detrimento.
Nel regno labirintico di Clòto, Làchesi e Àtropo il signor K. con indosso la kunée discese agli Inferi per ritrovare se stesso e il suo amico, o quello che era rimasto della sua diafana esistenza; non sopportava quell’atto impuro e la sua barbara e plateale rovina; rovina per chi resta, pensò. Nell’Ade vide una gran folla meccanica del niente che ostacolava il passaggio di un feretro, dietro al quale i parenti più stretti, afasici e indolenti, avanzavano oltrepassando quello che era rimasto della loro stessa vita, allorché il volto luciferino di un giovane prete circospetto celebrava quella perdita con celato distacco. In preda a un terribile e invadente tremito, l’amico seduto su un prato di menta al di sotto di un bianco cipresso isolato osservava con occhi vuoti e sgranati l’enorme Cerbero latrante e l’invisibile intorno; e il tremito zigzagando lungo tutto il corpo dal volto cupo, magro e diafano scuoteva ondulante quella fragile figura non più umana. Il signor K. annichilito dalla tragica visione chiese ad Àtropo una delle tre Moire se egli avesse potuto salvare l’eroe dalla sua amara e rovinosa sorte, ma Ella, adiàfora figura, con imperturbabilità non accennò a una risposta. Il troppo presto aveva preso forma, e l’amara esistenza e l’impalpabile dolore e la sua assenza era ormai certa, e il signor K. con umidi occhi fuggitivi, tra un gran numero di sconosciuti farfuglianti, l’infelicità, la disperazione e l’oblio, colse per l’amico nel regno della morte il fiore più bello.
All’interno della sua psyché, e nell’immenso palazzo della Titanide Mnemòsine, cercò i particolari ricordi di quei cieli, di quelle terre e di quelle limpide acque dei mari d’Oriente, con tutte le loro sensazioni; allorquando incontrò per la prima volta Ettore, seduto su una delle bitte di metallo del molo in una piccola, spoglia e bianca isola adagiata come un gioiello nell’antico e oscuro Mare di fronte alla foce dell’antico Istros, nell’istante in cui l’amico pescava nell’ora del tramonto, mentre il sole a ponente con i suoi ultimi raggi dorati lasciava spazio alle luminose ed esplosive e ultime estensioni della sua stessa luce: dal giallo-rosso-viola alla prima parte dell’oscurità vespertina; solitario, Ettore, amava quell’attimo, e immerso nella vita, sotto l’infinita estensione dello spazio siderale, come inghiottito dalla natura, dimenticava se stesso; egli sentiva la sua vetta, gli immensi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi, l’estensione dell’oceano, le orbite degli astri, l’infinito pelago, e sconfinando fuori di sé vide per la prima volta quel luogo e la grande Natura, che, nella normalità acquisita, sono costantemente lontani e illusivi.
L’oblio si presentava forte quando, pronto a occuparsi delle quotidiane faccende, il signor K. iniziò a pronunciare illogiche parole, insensati discorsi. Meditò, tuttavia, che non fosse proprio l’oblio a essersi sbarazzato del suo personale ricordo, ma la sua stessa mente, che sofferente cercava di seppellire Ettore per sempre, quell’apparenza e quella presenza, cancellandone le ragioni della sua scomparsa e le ultime immagini della sua caducità. La distanza del suo ricordo era a volte incalcolabile, causa la smisurata distanza fra ogni stella, quella stessa che cerchiamo di limitare e misurare, mentre affaticandoci per imprimerla essa decade svanendo facendosi primo vuoto. Non volendo che la vita perdesse consistenza il signor K. impresse nella sua coscienza ora rientrata in sé un ricordo senza tempo, l’eroica dimensione dell’amico Ettore: senz’altro un eterno ritorno, un’assoluta e perfetta estensione e il suo contrario, entrambi innanzi alle porte luminose dell’eterno divenire dello spazio e del tempo diuturno che scorre sempiterno; in perenne dilatamento il primo, e ineluttabile il secondo, nei quali la ‘prima luce’ un tempo unì in entrambi l’umanità nell’epifanica suprema sintesi: unione articolata di psyché, di phrén, di noûs e di thymós, nell’atto e nella potenza, nell’anima prima, dipoi nell’eidos (ontologico e gnoseologico), nell’eidos formante e combinante, nell’essenza, nell’esistenza e nell’esperienza, e nella hyle; nel principio, nel processo diveniente cosmico degli enti e nella loro stessa fine, quest’ultima non fine assoluta, ma incipit per un nuovo ed eterno processo formativo insito in ogni singola vita e coscienze cosmiche.
Per volontà quasi diabolica mi resi conto di aver perso l’ultimo raggio luminoso dell’Aurora, il suo fascino, le sue forme e i suoi colori; e l’incanto che essa produce e suscita in quel preciso istante, mentre il tempo maligno e indifferente, vendicandosi della miserevole esistenza, perché la sventura, quando giunge in noi senza preavviso, insinuandosi come una nera serpe, la più nera, fra i nostri beni più cari all’improvviso, come una stretta dolorosa ci afferra come la solitudine. Il signor K. conosceva molto bene quella sconfinata sensazione; e la polvere adagiata come un velo sottile su ogni oggetto faceva parte di quel luogo da sempre, al pari del disordine e della confusione, mentre dietro al grande tavolo lo specchio rifletteva oltre la sua immagine esile e spezzata altri numerosi e insoliti oggetti.
Dietro la collina vidi la follia di Marte / dentro una foglia secca di luce, / e per una raffica di vento / – tra i passi bianchi – / i suoi occhi neri videro, / per la prima volta, la sua età, l’Aurora / mentre tra i fiori sboccianti si fece notte1
Note
- I versi sono stati composti dall’autore dell’articolo.
Foto: Jean Córdova, L’Aurora (Serie dei paesaggi), 2023, acrilico su carta Rosaspina, 100 x 70 cm
12 maggio 2023