di Massimo Selis
Isolati, oppressi, marchiati: i nostri corpi raccontano la morte e non più la vita. Raccontano lo svuotamento che si lascia riempire e possedere dalla paura, un liquido infetto che ruba ogni spazio. Gli occhi più non vedono perché dati in prestito ai signori della menzogna. Così subiamo ogni oltraggio e abbandoniamo gli ultimi rimasugli di dignità. Il corpo è pegno per la vittoria sulle proprie paure e nevrosi, è il facile baratto che alimenta l’illusione di una normalità da riconquistare ad ogni costo. Ma non vi è qui più né corpo, né uomo, solo la loro impacciata controfigura. Già, l’uomo! Per la dimenticanza di ciò che è, e di ciò che è chiamato a divenire, si è lasciato imprigionare nel più tormentoso degli incubi. In questa notte che, sorniona, illude di preparare ad una luminosa mattina.
«Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dèi», ci rammenta la sapienza ermetica. Ma anche chi crede di adeguarsi a tale principio, sorvola su un aspetto della massima importanza. Non solo l’anima, ma anche il corpo dobbiamo imparare a conoscere, per poter così incamminarci sulla via della nostra realizzazione. Anzi, anima e corpo in un sol volume uniti.
Nel secondo Giorno del racconto genesiaco si legge che «Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento» (Gen 1,7). Siamo, ahimè, abituati a leggere le Scritture, in modo particolare l’Antico Testamento, come un libro di Storia e perciò ci perdiamo sempre il meglio. Qui si vuole rivelare la costituzione spirituale dell’uomo, nella sua dimensione esistenziale (le acque di sotto) e in quella animica (le acque di sopra) che sono fra di loro saldamente legate da questa “sostanza” denominata firmamento (stereoma). Le due acque, simbolo del dinamismo della vita, sono collegate da qualcosa di immutabile e fermo. Da qui deve scaturire una teologia dell’unità dell’uomo, in cui si distinguono semplicemente due tappe evolutive. Una teologia che non ci parla dell’uomo come di un essere che possiede un’anima, ma che è un’anima, e che quindi deve scoprire come “nascere” al proprio livello animico (vedi Gesù che spira sulla Croce).
Nel terzo Giorno, il racconto procede con il manifestarsi dell’asciutto a seguito del ritirarsi delle acque. Il versetto, con l’immagine della terra arida, si riferisce in realtà all’uomo che, nel suo farsi corpo, manifesta la Vita; le acque sono ancora moltitudine indistinta che deve crescere nell’individuazione delle singole corpuscolarità. È l’uomo che sta crescendo alla sua statura immateriale, partendo dal suo corpo. Occorre dunque che egli presti attenzione a distinguere, come fa Agostino, la “terra che calpesta” da quella che “si porta”, e cioè il proprio corpo, strumento creato per lui da Dio per manifestare il traguardo della sua divinizzazione.
A questa lettura se ne può affiancare anche un’altra – i testi sacri sono sempre polisemantici – che collega l’uomo e la creazione, al piano divino. Così le acque di sopra rappresentano l’unità archetipale non manifesta, mentre le acque di sotto la molteplicità manifestata. Adamo, “uomo dal basso”, contiene in germe l’unità superiore, ne è il più vivo simbolo. Il simbolo (sym-ballein) è il gettare insieme, unire i due piani. Il dia-ballein è al contrario il gettare di traverso, separare i due mondi, privando l’uomo del collegamento con la sua radice ontologica, egli che in verità è un mikrokósmos (piccolo universo) e un mikrótheos (piccolo dio). Qui si concretizza l’incontro fra l’uomo, l’universo e gli dèi, richiamato dalla sapienza ermetica.
Molte sono le testimonianze, specialmente nell’oriente cristiano, di santi e mistici che apparivano avvolti nella luce: la materia ridivenuta energia. Più l’uomo partecipa del suo essere divino, più il suo corpo sprigiona i raggi del mondo dell’alto. Il corpo è ciò che Dio ci ha dato per esprimere la Sua presenza.
Il corpo umano è schema della costruzione del nostro divenire come esseri spirituali. Dalla vivificazione dei centri inferiori, si ascende al cuore e infine al capo, sede dell’intelletto, dove ha da brillare la luce della visione interiore. Ogni organo è simbolo di realtà divine, e ogni organo necessita di lavorare per integrare le “polveri”, le energie dell’incompiuto che attendono di venire purificate. La scala di Giacobbe dove gli angeli salivano e scendevano è la nostra colonna vertebrale dove le energie mobilitate sono mutate in forze di luce. Quando invece non compiamo tale lavoro esse si rivolgono contro di noi generando anche malattie fisiche o psichiche.
Ieri come oggi, guardiamo al mondo come ad un’entità separata, e lo stesso tragicamente facciamo con il nostro corpo. Così, le forze che dovrebbero portarci alla nostra realizzazione, si trasformano nel satana che ci divora e ci lascia impotenti. Subiamo e tolleriamo il male, che ogni giorno di più ci infliggono, perché non ci “conosciamo”, come Dio ci ha permesso di conoscerci. Il corpo è tutto un simbolo e l’uomo deve manifestarlo, perché l’uomo è archetipale.
Foto: Idee&Azione
10 giugno 2021