di Massimo Selis
«È bella la mia casa. Ha le mura robuste, i soffitti alti. Respinge l’afa estiva e conserva il tepore del fuoco negli inverni.
È bella la mia casa. Qui sono venuti a vivere i miei nonni quando erano ragazzi. Qui sono nati e cresciuti i miei genitori. Qui sono nato e cresciuto io coi miei fratelli. Ha gli spazi ampi, come le case di una volta. Si respira la storia, gli affetti che durano nel tempo e sembrano restare impressi nelle pareti, nei pavimenti, anche se il mobilio cambia e si adegua agli anni.
È bella la mia casa. Perché ne conosco ogni angolo, ogni spigolo. Qui sono cresciuto, da quando ancora gattonavo sui pavimenti di ceramica, a quando ho iniziato a camminare e tutto mi sembrava così grande, così alto. La conosco bene, perché sono cresciuto insieme a lei e mi dà sicurezza: perché ciò che conosciamo, che ci è familiare, ci fa sentire al sicuro.
È bella la mia casa. Là fuori, invece, il quartiere non è più quello di una volta. Si giocava per strada, poche auto, con i vicini si andava d’accordo. Un’astratta conoscenza, ma questo bastava a non sentirsi estranei. Ora i volti sono cambiati, di astratto sembrano esserci le persone. Il prato dall’altra parte della strada non c’è più, solo terra sbattuta dal vento che qui si agita quasi ogni giorno. E poi la notte, la notte si sentono urla, rumori e sirene. Ogni tanto qualcuno finisce dentro un’ambulanza.
È bella la mia casa. Quando ero piccolo il portone restava sempre aperto mentre io giocavo in strada o nel giardino accanto. Ora invece abbiamo messo le inferriate e la sera chiudiamo le persiane prima che il sole abbia incendiato il cielo. I nostri amici ci vengono spesso a trovare, noi invece non usciamo praticamente mai. Qui si sta caldi. Qui si sta al sicuro. Qui possiamo parlare senza che il mondo là fuori ci zittisca. Qui ci capiamo al volo. Qui c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, c’è tutto il mondo.
È bella la mia casa».
Così ti racconti. Mi trovo spesso a camminare sul quel viale che oggi è infestato di polvere e violenza, come tu dici. La vedo la polvere. La sento che si appiccica ai vestiti, si aggrappa alle ciglia e morbosamente alle labbra. La vedo la violenza. La sento come se aspettasse il momento giusto per venirmi a prendere. Ma io resto qui fuori, su questo viale, su questi campi. Su altre strade, altri campi, in altre case anche se talvolta mi sento un “fuori posto”.
Ti chiamo, uomo, ti invito ad uscire a guardare insieme a me, a vincere la paura, l’abitudine. Perché l’abitudine non nasce forse dalla paura? Ma tu vuoi restare nelle tue stanze, a guardare il mondo dalle tue finestre, tra una sbarra e l’altra. Pensi di poterlo capire lo stesso il mondo, anzi forse credi di capirlo ancora meglio di chi è là fuori. Mi inviti ad entrare, perché dentro si sta meglio, i tuoi amici sono fidati, intelligenti, interessanti. Qualche volta, però, mi chiedi di raccontare cosa vedo, cosa sento, mentre me ne vado in giro. C’è turbolenza, scontro, ma anche il male parla di Vita, là fuori. Poco importa cosa pensino le persone, ma se si ascolta bene si comprende che tutto è in movimento, tutto si deve comporre in un nuovo ordine, ma prima serve una nuova comprensione. Serve entrare nel movimento, non farsi trascinare dalle folate di polvere e terra che colpiscono i volti, ma camminare bassi e sentire la direzione dell’aria, il suo accelerare e rallentare. In questo ritmo alternato se ne può a volte intendere la voce che sussurra verità.
Io di questo ti racconto, sapendo bene di dover evocare l’indicibile, e lasciarti immaginare l’invisibile. Occorre essere più che oratori, occorre essere poeti. Non so se riesco nell’intento, ma ti assicuro che ce la metto tutta. Anzi no! Esattamente il contrario. Di me non metto proprio nulla, perché so che queste verità, queste immagini sono oltre me, come sono oltre te. Oltre tutti noi.
Tu spesso vuoi sapere subito, ma non si tratta di notizie da giornale buone per intrattenere per qualche ora. C’è bisogno di tempo, di silenzio, di ruminazione. Ti racconto quello che sono riuscito ad assimilare, quello che è diventato parte di me e che nessuno potrà venirmi a rubare. Le parole escono dalla bocca, ma hanno una tonalità molto più profonda perché giungono da dentro, non so nemmeno bene da dove. Te le dono come si farebbe con qualcosa di enormemente prezioso sperando che tu ne abbia la giusta cura. Non so se tu le tenga solo per te, o se le confidi ai tuoi vecchi amici. Se le ripeti più volte per averne confidenza. Quello che so è che io ti porto ogni volta parole nuove, immagini nuove che però rimandano alle verità eterne, a ciò che era, è e sempre sarà. Ma tu le fai passare prima attraverso le persiane già chiuse, poi attraverso le scure inferriate. Le traduci nei tuoi schemi mentali, nell’immaginario delle tue stanze sempre uguali, sempre serrate. E così, credi di comprendere, quando in verità, travisi tutto.
Tu che sei fermo vorresti comprendere ciò che è in movimento. Tu che hai paura vorresti comprendere ciò che ti spaventa. Tu che hai lo sguardo rivolto solo alle forme del passato vorresti comprendere ciò che eternamente si rinnova pur restando sempre uguale nella sostanza. Tu, uomo della conservazione, sembri come un legno che si va rinsecchendo, mentre là fuori, nel tumulto e nella confusione c’è bisogno di alberi rigogliosi che portino frutto. Non ci si intende perché le parole in movimento non possono essere afferrate da chi vuole restare inchiodato. L’incomprensione è massima.
Dentro la tua casa invece vi capite alla perfezione, anche con i tuoi amici. Perché non c’è mai un’intuizione creatrice, una luce che porta nuova comprensione a cose già viste. Le parole che sento, perché le sento anche io qua fuori, sono solo il già detto, il già pensato, nelle forme già espresse. Una «cultura del ciclostilato» come direbbe Vincenzo Romano. Le conosco anche io le tue stanze. La conoscevo anche io quella casa quando qui fuori si viveva una vita tranquilla. Ma la Tradizione è dinamica e non statica. È questo che la rende viva. Perché tu non lo intendi e vuoi invece consegnarti prematuramente alla morte? La Vita e la Verità soffiano anche fra le storture di un mondo sempre più disumano. Per saperle cogliere, bisogna però spalancare le porte e le finestre e avventurarsi all’esterno.
Non ci si comprende più perché non è una semplice questione di concetti, di dottrine, di parole. È una questione di coscienza. E la si allena non rimanendo chiusi in quelle stanze.
Sintetizza così la de Souzenelle: «La conoscenza data da nuovi stati di coscienza è, anch’essa, sempre sperimentale, ma questa esperienza non è più comune a molta gente; non è verificabile che dai conoscenti con eguale evoluzione di coscienza. In altre parole questa conoscenza implica l’evoluzione del conoscente, il suo accesso a livelli di conoscenza sempre più elevati. Per coloro che partecipano dello stesso livello, la conoscenza è obiettiva. Ma, contrariamente, i suoi dati sono avvertiti come soggettivi da quanti non si sono “liberati” dalla prigione, nelle cui categorie il nostro mondo del ma‘ tiene prigioniera la nostra mente». Il mondo del ma‘ è quello della manifestazione del molteplice, quello delle «acque che sono sotto il firmamento» (Gn 1, 7). Qui vi può essere solo una comprensione “letterale” dei Misteri, delle Verità, di ogni aspetto dell’essere. Il Cristo si sta svelando in un modo nuovo, incredibilmente più profondo. E sta chiamando, per preparare “i suoi”.
È bella la tua casa. Ma La Vita chiede di uscire.
Foto: Idee&Azione
17 marzo 2023