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    Baudelaire, gli abissi e le ali del gigante

    Duecento anni fa, nel 1821, nasceva a Parigi Charles Baudelaire, gigante delle lettere francesi, autore dei Fiori del Male, una delle raccolte poetiche più importanti della letteratura universale, per qualcuno il Dante della modernità, un termine che inventò egli stesso in versi bellissimi: “la bellezza passeggera e fugace della vita attuale, l’essenza di ciò che il lettore ci ha permesso di chiamare modernità”. Un lettore a cui egli si rivolge direttamente nella prima lirica dei Fiori del male, gettandogli in faccia tutto il male di cui cercava di liberarsi: “la stoltezza, l’errore, il peccato, la grettezza empiono i nostri spiriti e travagliano i corpi”, tra “peccati ostinati, pentimenti vigliacchi” in cui “le nostre confessioni esigono lauti compensi”. Fu il primo dei poeti maledetti per una vita consumata tra gli eccessi: alcool, prostitute, droghe di ogni tipo, le cui sensazioni descrisse nei Paradisi Artificiali, una riflessione sul rapporto tra ispirazione artistica, immaginazione, sogno e dipendenza, fino alla condanna finale del loro uso.