di Daniele Trabucco
Il 23 marzo 1999 iniziava il bombardamento della Nato nel Kosovo giustificato dal genocidio della minoranza etnica e linguistica albanese da parte delle autorità della (allora) Repubblica federale di Jugoslavia, ma in assenza di qualunque legittimazione internazionale. La risoluzione n. 1244/1999, che pose il Kosovo sotto l’amministrazione provvisoria dell’ONU e autorizzava la presenza di una forza di mantenimento della pace sotto la guida della NATO, intervenne a “copertura” di un intervento militare già concluso.
Ora, il diritto ad una “ingerenza umanitaria” in uno Stato sovrano, quale la Jugoslavia, richiedeva necessariamente l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza al fine di evitare aggressioni pretestuose che sono state utilizzate per “sperimentare”, da parte degli Stati Uniti d’America, una nuova strategia militare funzionale ad un ruolo non più solo difensivo della NATO, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione dell’U.R.S.S. e la fine del Patto di Varsavia nel 1991. La “ridefinizione in termini etici” delle relazioni internazionali, iniziata nel 1999 con il Kosovo, ha posto le premesse affinché l’Alleanza Atlantica del Nord iniziasse a sottrarsi agli stessi vincoli posti dal diritto internazionale.
Visto che il meccanismo di funzionamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dal 1945 ad oggi, non assicura né saggezza politica, né autonomia decisionale, tanto l’Unione Europea, dietro condizionamento americano, quanto la NATO hanno cercato di dotarsi di “processi” sempre più interventisti ed intrusivi come l’allargamento verso l’Europa orientale, una delle cause dello scoppio della guerra russo-ucraina. La “Partnership for peace”, firmata il 28 maggio 2002 con la Russia (vertice di Pratica di Mare), non ha certamente risolto i problemi in ragione del suo carattere asimmetrico, poiché Mosca è stata relegata al ruolo di “un ambiguo interlocutore”. Ed ora…
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27 marzo 2022